IoT, l’anima delle città smart

I primi segnali di un’economia basata sul dialogo tra persone e “oggetti” sono incoraggianti, ma sulla strada della realizzazione di tante promesse, anche conservatrici, ci sono ancora numerosi ostacoli di natura regolamentare e finanziaria

Nella storia, ancora tutta da scrivere, dell’Internet of Things uno dei capitoli più interessanti sarà sicuramente occupato dalla tematica delle smart cities e più in generale delle infrastrutture intelligenti e dei sistemi di comunicazione machine-to-machine a supporto di una nuova tipologia di servizi basati sull’informazione in tempo reale. L’informatica applicata ai servizi tipici di qualsiasi grosso agglomerato urbano – infrastrutture, traffico, energia, controllo dell’inquinamento, sicurezza, servizi ai cittadini, includendo non solo gli aspetti più burocratici e legati alla pubblica amministrazione, ma anche il tema della salute e della prevenzione – non è certo un fenomeno nuovo. Sei anni fa, un grande protagonista dell’informatica come IBM con il suo nuovo CEO, Sam Palmisano, aveva deciso di lanciare lo slogan “smarter planet”, per definire gli obiettivi della strategia di gruppo dopo la grande affermazione del concetto di informatica “on demand”.

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La combinazione di dispositivi mobili, sensori di rilevamento e capacità di trattamento di grandi volumi di dati sembra la ricetta ideale per un ambiente urbano capace di ottimizzare l’uso dell’energia, ridurre sprechi e inquinamento, facilitare la corretta manutenzione delle infrastrutture o prevenire e intervenire in caso di guasto, razionalizzare il traffico riducendo il numero degli incidenti e delle loro vittime, gestire in modo diverso, con molti più automatismi, i servizi al cittadino e ai turisti, fornire un’informazione più ampia e puntuale su questi servizi, stimolare la partecipazione di tutti alla gestione della città, affiancare le forze creative e culturali nelle loro iniziative.

Eppure in Italia, i numeri rilevati da istituzioni indipendenti come il Politecnico di Milano dicono che nell’ambito del nascente mercato dell’informatica per la IoT, la voce smart cities mostra ancora un certo grado di immaturità dell’intero segmento, malgrado qualche sperimentazione interessante e nonostante i segni di riconoscimento da parte delle amministrazioni locali, che in diversi casi hanno già dato vita ad assessorati e uffici ad hoc presidiati da figure responsabili. Eventi straordinari come Expo 2015 possono essere molto importanti, ma come al solito non risolvono del tutto il problema di “come fare sistema” e dar vita all’Italia delle smart cities.

IoT E SMART CITY

Lo scopo di questa inchiesta è fare il punto sulla questione IoT e smart city attraverso una prima analisi dei dati, delle proiezioni e naturalmente dei primi risultati ottenuti sul campo, cercando di individuare promesse e aree di criticità: in altre parole, tutti gli aspetti che possono fare la differenza tra un’astratta “parola d’ordine” e una solida economia di prodotti, sistemi e servizi. Un altro punto critico, nell’ambito dei progetti coordinati ed erogati dalle pubbliche amministrazioni, è rappresentato dai capitali di avviamento e dalla successiva sostenibilità sul piano finanziario in un’epoca che non è propriamente di vacche grasse. Infine ci sono gli ostacoli sul piano regolamentare, anche in chiave tecnologica – ossia dal punto di vista delle piattaforme, degli standard, delle infrastrutture radio – che si frappongono alla realizzazione del sogno di una città, se non di un pianeta, più smart grazie alle informazioni che possiamo estrarre e analizzare attraverso un “pulviscolo” intelligente di sensori, dispositivi, oggetti, veicoli, persone “digitali” in costante connessione reciproca.

Proveremo insomma a interrogarci sulle tecnologie – sensori, terminali, protocolli e reti di comunicazione, infrastrutture condivise e ad hoc, ambienti di integrazione applicativa – che possono contribuire alla corretta implementazione di una strategia per la smart city; su quali possano viceversa essere le carenze e le criticità da affrontare; e su come la pubblica amministrazione può orchestrare i servizi.

SCENARIO FUTURO

Possiamo partire con qualche premessa e qualche dato preliminare per inquadrare un fenomeno di cui non è facile dare una definizione univoca. Internet delle cose, degli oggetti o – come sembra preferire Cisco – “of Everything”, sono solo alcune delle formule più ricorrenti, ma in occasione dell’M2M Forum tenutosi lo scorso maggio a Milano, Mauro Colopi di Bain&Company ha rispolverato un termine “informatica pervasiva” che per quanto sia stato coniato da un autentico visionario del settore, Mark Weiser, quasi vent’anni fa rimane il più convincente. Per l’analista di Bain&Company, il pervasive computing risulta dalla sommatoria della comunicazione macchina-macchina e dalla Internet degli individui e comprende tutti i sistemi elettronici che siano in grado di elaborare dati e siano connessi attraverso Internet, con o senza una precisa sollecitazione da parte di un utente finale. Ma dal punto di vista quantitativo, di che contesto stiamo parlando? Secondo le ormai famose stime di Cisco, la Internet of Everything comprenderà da qui al 2020 circa 50 miliardi di oggetti.

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Intervenendo alla convention Fujitsu World Tour 2014 che il colosso informatico giapponese ha organizzato ad Assago in giugno, il futurologo Vito Di Bari ha dichiarato di ritenere assolutamente conservativa questa stima: «Nel 2020, prevedo piuttosto l’esistenza di 200 miliardi di oggetti. Significa che avremo non meno di 500 miliardi di microprocessori, di cui appena uno su centomila si troverà “a casa propria”, cioè in un computer». Per il futurologo italiano più famoso del mondo, questa pervasiva presenza di generatori di dati provocherà un autentico Big Bang informativo. «Nel 2025, ogni singolo abitante della terra produrrà 65 terabyte di dati, come se ciascuno di noi girasse con 500 MacBook Air da 128 GB in tasca. Un’opportunità che in termini economici varrà 13mila miliardi di dollari». Più di un quarto di questo valore, riguarda – secondo Di Bari – il comparto Automative and Building.

POTENZIALE DI MERCATO

Lo scenario forse volutamente provocatorio di Di Bari non è troppo distante, almeno per ordine di grandezza, da quello appena tracciato dagli analisti di IDC, che vedono ormai concretizzarsi quella che qualche anno fa appariva come una vaga promessa. Secondo lo studio pubblicato a inizio giugno, la trasformazione dell’industria informatica dovuta all’Internet delle cose (che IDC definisce come “una rete di reti di endpoint o “cose” univocamente identificabili, che comunicano senza interazione da parte dell’uomo in connettività IP”) rappresenta un mercato che crescerà da mille e 900 miliardi di dollari nel 2013 a settemila e 100 miliardi nel 2020. Spezzando il dato dello scorso anno in chiave geografica, le nazioni dell’Europa occidentale si dividono il 26% della torta di quasi due trilioni di dollari. Al di là di queste cifre, afferma ancora Idc, le aziende, i consumatori e l’intero ecosistema produttivo in ambito IoT godrà di una moltitudine di vantaggi dall’avanzamento del settore e delle sue implementazioni.

Tra le macroconseguenze più vistose nel mercato globale delle regioni sviluppate, ci sarà l’avvento di nuovi modelli di business, nello spazio B2B come in quello B2C, a causa del forte livello di automazione di processo che l’IoT rende possibile e la conseguente accelerazione in termini di disponibilità dei servizi, misura del loro rendimento e capacità di risposta alle nuove necessità dei clienti. Un altro “bonus” consiste nella capacità di valutazione e controllo dei processi interni e dei prodotti. Direttamente collegato al Big Bang di dati di cui parla Di Bari, grazie a questa capacità di comando e controllo, tutte le aziende potranno prendere le loro decisioni in tempo praticamente reale e – più in generale – i consumatori potranno usufruire di servizi “anywhere, anytime”, in tutti i campi applicativi, dalle cure sanitarie ai sistemi di trasporto individuale o collettivo, fino ai punti vendita del retail. Gli effetti del dialogo uomo-oggetti si vedranno anche in termini di diversificazione e innovazione delle fonti di revenue. Grazie a quella che il Cto Global Business di Fujitsu chiama “iniezione del digitale nel mondo analogico” sapremo inventarci un nuovo universo di applicazioni.

Proprio la varietà e la pervasività delle applicazioni possibili, rende ardua l’analisi del potenziale di mercato e degli ostacoli al suo sviluppo. Venendo in modo più specifico al tema della smart city, una delle analisi più dettagliate di cui disponiamo al momento è quella – riferita tuttavia all’intero contesto della IoT – presentata lo scorso febbraio da Osservatori.net della School of Management del Politecnico di Milano. Questo organismo è uno dei pochi a fornire al momento una valutazione quantitativa del mercato IoT in Italia, che secondo l’Osservatorio Internet of Things si attesterebbe sui 900 milioni di euro di valore. L’attività dell’Osservatorio comprende oltre al comparto Smart City & Smart Environment, gli ambiti della Smart Car, Home&Building, Smart Metering e telelettura energetica, Smart Logistics, Asset Management e il solito campo “altro” di servizi indifferenziati. Gli studi svolti tra le aziende che partecipano a Osservatori.net permettono di stimare che il fatturato totale di 900 milioni nel 2013 viene generato da circa sei milioni di “oggetti” che in quasi il 50% dei casi ricadono nel segmento Smart Car. A tirare la corsa dell’intero settore è quel terzo di fatturato attribuito alle automobili connesse, a loro volta fortemente concentrate (95% dei casi) sull’«utilizzo di box Gps/Gprs per la localizzazione dei veicoli privati e la registrazione dei parametri di guida con finalità assicurative». L’Internet delle cose all’italiana, in altre parole, serve soprattutto a proteggerci dai ladri d’auto, e la connettività si esprime attraverso circa sei milioni di sim card installate a bordo delle centraline prescritte dagli assicuratori.

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DISPOSITIVI, RETI E PERSONE

La rete degli oggetti gioca un ruolo fondamentale anche all’interno dei programmi smart city che la pubblica amministrazione e le aziende non solo pubbliche hanno sperimentato in questi anni. Il censimento presentato all’inizio di quest’anno da Osservatori.net comprendeva circa 250 applicazioni analizzate in oltre 110 città, quasi metà delle quali (51) sono italiane. L’espressione, secondo il Politecnico, travalica i confini puramente tecnologici e si rifà a una concezione della realtà urbana che spazia dalla mobilità all’efficienza energetica di servizi essenziali come l’illuminazione notturna delle strade, fino ad abbracciare i confini ancora molto incerti dell’eGovernment locale e della partecipazione attiva dei cittadini. Nonostante non vi sia una piena sovrapposizione tra il concetto di smart city e il paradigma della IoT, quest’ultima sta acquisendo una funzione abilitante della città intelligente, grazie ai numerosi impieghi volti a potenziare i servizi offerti nelle aree urbane.

Ma se nelle nazioni più avanzate, smart city significa innanzitutto “gestione della mobilità” urbana, in Italia il grosso della sperimentazione si posiziona in ambiti più prosaici come l’illuminazione intelligente e la raccolta dei rifiuti, oltre a qualche esempio di smart metering e smart grid.

PUNTI CRITICI E PROSPETTIVE

Le aree di criticità che ci interessa evidenziare sono essenzialmente due. Un aspetto riguarda la contraddizione tra una tipologia di servizi da un ambiente interconnesso e la strana individualità di sperimentazioni che vanno a indirizzare solo tematiche molto specifiche. Durante la presentazione dei dati dell’Osservatorio IoT è stata sottolineata l’esigenza di una progettualità più di sistema, orientata al multi-funzione. La carenza è soprattutto a livello delle piattaforme che dovrebbero assicurare connettività e servizio, in una chiave il più possibile modulare, proprio per accogliere e realizzare le idee di diversi erogatori e fruitori diversi. Il secondo punto riguarda invece il finanziamento dei progetti, che nel caso delle smart city è – secondo il Politecnico – «il principale dei nodi aperti in relazione all’avvio di progetti IoT». Se all’estero ci sono stati i primi casi di successo dell’avvio di partnership pubblico-privato, in Italia almeno un terzo dei progetti censiti si basa su fondi di provenienza UE (targati per esempio Horizon 2020) o su finanziamenti erogati a livello nazionale, da enti pubblici come il Miur. Non è solo un problema di natura politica, di un modello da accettare. In assenza di un chiaro percorso di sostenibilità delle applicazioni – con le possibili eccezioni dei significativi ritorni in termini di efficienza, misurabili per esempio con le prime applicazioni per una migliore gestione della raccolta differenziata dei rifiuti – la spinta all’innovazione in questo settore si deve basare sull’investimento di risorse “upfront”.

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Secondo Daniela Rao, TLC Research & Consulting director di IDC Italia, siamo davanti a una vera scommessa in un momento ancora in fase iniziale di un mercato che molto probabilmente sarà di dimensioni importanti, ma che dovrà maturare nel corso dei prossimi cinque anni. «Quindi è giusto soffermarsi su un’idea di piattaforma che abbia non solo capacità di gestione del traffico delle informazioni, ma riguardi anche la distribuzione dei vari device: un grande Mobile Device Management orientato alla IoT». Mettere a punto questa piattaforma è prioritario, ancora più che mettere a punto le singole applicazioni. «Senza una piattaforma evoluta è impossibile che le applicazioni funzionino». Dunque, è inevitabile guardare a chi al momento sembra avere la responsabilità maggiore: gli operatori che “posseggono” quei sei milioni di sim card dell’attuale mercato IoT/M2M in Italia e sulle infrastrutture 3G che per il momento rappresentano la tecnologia di comunicazione dominante.

«In quel miliardo di euro scarso generato in Italia dalla IoT – prosegue Daniela Rao – una componente importante è legata allo sviluppo delle applicazioni e alla produzione di chipset e device, quindi l’hardware. Solo una parte modesta riguarda la connettività, aspetto tipicamente “telco”, e coloro che gestiscono o gestiranno le piattaforme». Guardando agli operatori, dice ancora l’analista Idc, è difficile che questi possano restare nell’ambito della connettività pura: andare in direzione delle piattaforme è una scelta obbligata. e di fatto in Italia, due operatori come Telecom Italia e Vodafone dimostrano di avere in campo M2M un grande spirito di iniziativa. «Il loro problema è verticalizzare» – avverte però Daniela Rao. «Nel momento in cui si deve lavorare su determinate applicazioni e servizi, con le naturali differenze tra settore e settore, le difficoltà crescono e obbligano l’operatore a spostarsi su terreni meno congeniali. I due operatori maggiori si muovono entrambi con vitalità perché tutta quest’area è considerata importante per la sopravvivenza e la crescita complementare a una connettività che genera revenues sempre più basse».

CONDIVISIONE E MULTICANALITA’

Oltre i problemi di natura politica o finanziaria, un contributo essenziale deve riguardare l’ambito tecnico-normativo e in questo senso il prossimo mese di agosto potrà rivelarsi determinante per il futuro. Infatti, per questa data è stata fissata la scadenza della prima specifica dello standard machine-to-machine communication elaborata nel quadro dell’iniziativa oneM2M, una partnership globale che raggruppa le organizzazioni continentali più importanti (per esempio l’Etsi in Europa o la Tia in Nord America), il Broadband Forum, la Open Mobile Alliance e altre. Diversi gruppi di lavoro in seno all’alleanza si sono occupati di architetture, protocolli, sicurezza e affidabilità, gestione e la prima versione della specifica dovrebbe dare un forte impulso al mondo della produzione verso il grado di condivisione e interoperabilità auspicato. Su scala locale in Italia, lo stesso Politecnico di Milano aveva proposto un concetto di Smart Urban Infrastructure multi-funzione da promuovere nelle varie municipalità (una sperimentazione è stata condotta lo scorso anno a Pavia) come «infrastruttura di comunicazione di secondo livello, non destinata a un’applicazione specifica ma nativamente condivisa tra più applicazioni». Uno degli obiettivi di questo modello è evitare di dover reinventare continuamente la ruota quando si tratta di far dialogare oggetti, tipicamente sensori e attuatori, che non utilizzano le classiche interfacce radio verso Wi-Fi o il 3G, ma devono fare necessariamente parte dell’universo IoT. Uno dei terreni di confronto più stimolanti sarà quello delle cosiddette wireless sensor network, dove esistono già importanti sforzi di standardizzazione (pensiamo a sistemi come ZigBee, l’M-Bus dei contatori del gas, o l’Ieee 802.15.4 delle wireless personal access network) ma per raggiungere questo obiettivo sarà necessario spendere ancora molte energie di coordinamento, regolamentazione e promozione sul mercato.