Forse podemos, anche in Italia

Non c’è solo il Milan. E il miliardo di euro del magnate cinese a rimpinguare le casse del club. Altri sono tornati a investire in Italia.

Cisco ha messo sul piatto 40 milioni di euro per l’Expo di Milano 2015. Un investimento slegato dal singolo evento internazionale e un segnale di fiducia nella crescita del Paese, come dice John Chambers, CEO del gigante USA. C’è il Samsung District, la nuova sede italiana della multinazionale sudcoreana: 12.500 metri quadrati di nuovi uffici distribuiti su otto piani del “Diamantino”, uno dei palazzi di vetro sorti nel polo dell’innovazione e del business milanese di Porta Nuova. E nei prossimi giorni, aprirà i battenti alle porte di Milano un nuovo data center targato IBM (ne parliamo su questo numero di Data Manager). Un investimento da cinquanta milioni di euro per far sì che anche le aziende italiane accedano ai vantaggi dei servizi IT in cloud, rimanendo competitive e al sicuro.

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Un flusso di capitali diretto non solo in Lombardia, ma in tutto il Paese. Più di 20 miliardi di dollari nel 2014 provenienti in gran parte da Cina, paesi Arabi e USA, secondo il rapporto “Italia multinazionale 2014” dell’ICE, l’Agenzia per la promozione all’estero delle imprese nazionali. Novemila e 367, quelle a partecipazione straniera censite, per un giro d’affari di 497,6 miliardi di euro e 915.906 dipendenti a fine 2013. Una ripresa, iniziata dopo il terribile quinquennio 2007-2012, da sostenere con ogni mezzo. Ma come si fa ad attirare nuovi investitori? Non certo affidandosi a carrozzoni zavorrati che hanno fatto poco o nulla per il bene dell’Italia. O cullandosi nell’illusione che da solo il brand “Italy” possa bastare per attirare gli investitori, bisognosi invece di supporto e assistenza per impegnare il loro denaro in Italia. E di misure concrete che spezzino la catena di piaghe bibliche che affligge il Paese: corruzione, malavita organizzata, giustizia, legalità, economia sommersa, costo del lavoro, fisco, burocrazia, debito pubblico, infrastrutture…

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Ecco, servirebbero come il pane alle nostre aziende banda larga e fibra per sfruttare appieno il web e il cloud; così come un piano anticiclico d’investimenti ICT nella PA che metta mano anche al sistema di regolazione delle gare, caratterizzato oggi da un’assurda corsa al ribasso delle offerte e congegnato per screditare le competenze e la dignità dei piccoli fornitori. E poi interventi mirati per promuovere la cultura digitale, soprattutto in quelle realtà, piccole e piccolissime, che “la sicurezza non ne capisco l’utilità”, ferme al palo della competitività. Ma se l’Italia immancabilmente occupa le posizioni più basse in tutte le graduatorie dei paesi più sexy per gli investitori internazionali, è anche per i tempi e i costi necessari per avviare un’impresa, allacciare un’utenza elettrica business, procurarsi un permesso edilizio o ottenere giustizia per una controversia su un contratto.

Torniamo ai fondamentali dunque e poi realizziamole davvero queste benedette infrastrutture. Opere utili, però. Certo da noi è più facile coagulare il consenso con dichiarazioni tipo torniamo alla lira, sloggiamo i rom dalle nostre città e rimandiamo nel loro paese la moltitudine di disperati che sbarca sulle nostre coste. Ma quando si tratta di mettere le aziende in condizione di lavorare meglio e in sicurezza, improvvisamente volontà e coesione diventano più rare di un panda gigante. Tante grandi aziende IT hanno voglia di tornare a investire. Attratte dalle opportunità offerte dal nostro Paese. E da condizioni favorevoli come il basso prezzo del petrolio, la quasi parità tra euro e dollaro, tassi d’interesse vicini allo zero, l’Expo e nei prossimi mesi il Giubileo. Una congiuntura inedita, per scrollarci di dosso anni di crisi e immobilismo. Forse, la volta buona per gridare podemos, anche noi.

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