Change.org, che valore hanno le petizioni online?

Una moda social che cresce senza sosta, anche in Italia, e che fa guadagnare sia la piattaforma che gli utenti promotori. Ecco in che modo

Il dominio del sito finisce con .org ma di organizzazione no-profit, modalità a cui molti utenti potrebbero pensare, c’è davvero poco. Già un paio di anni fa Wired scriveva del modus operandi di Change.org, legittimo per carità, ma vicino ad una specie di Google delle petizioni online. Grazie alle migliaia di campagne gestite ogni mese, Change.org conserva sui suoi server una mole di dati personali davvero cospicua, in proporzione vicina a quella dei grandi social network.

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Il motivo è semplice: ogni volta che una persona crea gratuitamente una petizione sulla piattaforma, il sito ne memorizza le informazioni basilari e lo fa per ogni navigatore che decide di sottoscriverla. In questo modo chiunque mette la propria firma virtuale (non digitale) in calce alla domanda viene inserito automaticamente in una sorta di mailing list riferita alla petizione di cui riceverà tutti gli aggiornamenti. In gergo un business del genere viene definito benefit-profit e si riferisce ad un’entità che con il suo lavoro genera un attivo puntando sul bene comune, in questo caso prendendo a cuore situazioni o appelli sino ad un certo momento inascoltati.

Parte dell’utile, che la piattaforma dice di reinvestire sempre nello sviluppo e nel miglioramento del servizio, arriva da chi sceglie di promuovere su Change.org la propria campagna a pagamento, similmente a quanto avviene per gli adv su Facebook e Twitter. In quel caso il sito mette in risalto le petizioni, suggerendole agli utenti secondo i loro interessi memorizzati grazie alle sottoscrizioni precedenti e al rilascio del consenso da parte dell’utilizzatore.

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Un’ulteriore entrata economica arriva da organizzazioni no profit, associazioni, e/o aziende le cui campagne sono presenti, come post consigliati ma non sponsorizzati, all’interno della pagina di una petizione; a quel punto se il navigatore decide di appoggiare la richiesta principale, anche i creatori di quelle secondarie, mostrate a rotazione nei box, ricevono l’indirizzo email del firmatario, pagando una certa somma a Change.org. Detta in maniera molto cruda (ma concreta): il sito raccoglie i contatti dei navigatori che poi rivende sotto varie modalità agli inserzionisti.

Intanto il fenomeno cresce; in Italia Change.org ha uno staff di 5 persone a Roma; 3.900.000 utenti (erano solo 136.000 nel luglio 2012); 8.399 petizioni attive; una crescita media di 190.00 utenti al mese e clienti nazionali del calibro di Telethon, UNHCR, Cesvi e Unicef. Nel 2014 sono state 90 le vittorie conseguite, 414 totali da luglio 2012; è possibile seguirle tutte da qui.

Per capire meglio cosa muova Change.org abbiamo ascoltato Massimo Melica, noto giurista esperto di nuove tecnologie: “Le piattaforme che promuovono campagne di sensibilizzazione, se da un lato offrono agli utenti la possibilità di manifestare la loro opinione, dall’altra spesso non appaiono in grado di incidere sul decisore attraverso la forza della partecipazione. Occorre dunque analizzare l’effettiva portata sociale di queste piattaforme e il loro reale core business. Per la politica possono essere dei termometri per affinare il messaggio, per i sociologi un modo con cui monitorare i cambiamenti, per i giornalisti un luogo dove attingere nuovi spunti informativi. Infine queste piattaforme sono degli strumenti di aggregazione che, qualora pongano violazioni sui dati dei firmatari, vanno perseguiti come per legge. In ogni caso, si deve sempre dare molta importanza alla sezione dedicata alla privacy e ai termini e condizioni del servizio”.

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