Festival Economia di Trento 2015. Mobilità sociale e crescita

Unione europea, lavoro, innovazione e diseguaglianze. Quale futuro ci attende?

Il Festival Economia di Trento compie dieci anni. Un decennio lungo, scandito dai temi fondamentali dell’economia mondiale, alle prese con la crisi che non passa. Dalle banche al lancio dell’iPhone, dal crollo di Lehman Brothers al debito della Grecia, passando per l’elezione di Barack Obama e le dimissioni del Papa. Ogni anno, il festival ha saputo decodificare l’attualità, fornendo un’occasione preziosa di incontro per la diffusione del sapere, come sempre sotto lo sguardo attento del responsabile scientifico del Festival, Tito Boeri, per il quale «la mobilità sociale è uno strumento fondamentale per evitare che le differenze all’interno di una società si perpetuino e si amplifichino». La decima edizione del Festival dell’Economia di Trento ha macinato numeri da record. Quasi 400 i giornalisti accreditati, provenienti da Italia, Spagna, Inghilterra, Francia, Stati Uniti e Cina. E una doppia esperienza. Quella sul web, con due milioni di accessi, sfiorati nel terzo giorno del Festival. E quella nei teatri, nelle piazze e nelle sale della città. Un festival ad alto tasso di innovazione, con 12 sedi coperte da fibra ottica, 3 piazze coperte da servizi di rete, cinque regie mobili, un canale satellitare, quattro chilometri di cavi video stesi nelle sale con 65 eventi coperti, tre server per la codifica delle trasmissioni in streaming video e due canali dedicati al festival sulle emittenti locali. Una conferma, che il marketing culturale non è un ossimoro.

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L’Italia è un Paese immobile?

La crescita economica lenta rende più acuto il tema della mobilità sociale: chi ha ingenti patrimoni è avvantaggiato e chi invece opera nel mondo del lavoro, anche se bravissimo, risulta danneggiato perché non riuscirà mai a colmare il divario di reddito. C’è poi un problema di differenze tra generazioni diverse. In questo senso, il gap può essere ridotto solo se i giovani possono recuperare le situazioni di svantaggio che hanno in partenza. Secondo Boeri, sono molte le istituzioni che possono favorire la mobilità sociale: il sistema educativo, i sistemi di accesso al mercato del lavoro e delle professioni, il sistema fiscale e le regole della tassazione.

Ci sarà ancora l’euro nel 2025?

Quale sarà l’impatto della Grecia sul futuro dell’Europa? Per l’economista Lucrezia Reichlin, che fa parte del consiglio di amministrazione di UniCredit e presiede l’organismo di vigilanza del gruppo bancario, bisogna tutelare le economie dai cambiamenti improvvisi. Il vero problema non è la quantità di debito, ma la sua distribuzione nei paesi. Il tema di fondo, per la Grecia ma anche per l’Italia, è la carenza di crescita: se si crescesse di più, il debito non rappresenterebbe un problema. Il ritardo nella ristrutturazione del debito è costato molto alla Grecia e rischia di costare molto anche all’Europa. La sostenibilità del debito è influenzata da molti fattori, compresa la situazione politica. E le regole da sole non bastano. I tassi di interesse bassi sono la condizione essenziale per la sostenibilità. Credere che il default sia una mossa per risparmiare sui tassi di interesse è solo un’illusione. E oggi, per la Grecia il problema è la credibilità sui mercati.

Si può imparare dagli errori?

I mercati sono il luogo dove si crea ricchezza e si scambiano informazioni, però non sono in grado di autoregolarsi. Parola di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, nonché profondo conoscitore del sistema bancario italiano ed europeo. Bisogna prevenire le crisi generate dalle instabilità intrinseche del sistema capitalista. Dopo lo scoppio della crisi, molte misure sono state prese. Il ruolo della politica rimane essenziale. Il sistema finanziario italiano poggia soprattutto sulle banche commerciali, ma un’impresa che vuole crescere e investire sul medio-lungo periodo deve essere in grado di rivolgersi al mercato dei capitali. Sono state introdotte forti agevolazioni fiscali per stimolare gli investitori. Ma l’Italia ha un limite fisiologico: un tessuto imprenditoriale ancora composto in larga parte di imprese familiari. I venture capital hanno consentito la nascita di società come Intel, Apple o Google. Bisogna però vigilare affinché non producano instabilità.

C’è luce in fondo al tunnel?

Il 5% degli americani più ricchi guida la ripresa “stellare” dei consumi, mentre la domanda del restante 95% è ancora al palo, frenata dalla difficoltà di accedere al credito. La crisi quindi ha aumentato le disuguaglianze. Non è pensabile un’economia che dipenda solo dai ricchi. Ridurre le differenze può aiutare la ripresa globale. La “lezione americana” di Steven Fazzari, economista della Washington University di St. Luis, potrebbe essere utile anche in Europa. Analizzando le grandi crisi del passato, quella più recente sembra completamente diversa dalle altre. Se nelle altre recessioni dopo due o tre anni si tornava alla normalità, nella “grande recessione”, l’occupazione è scesa del 6% anziché del due come nelle precedenti situazioni. E la forbice tra chi guadagna di più e chi guadagna di meno si è sempre più allargata.

Le macchine ci ruberanno il lavoro?

Secondo David Autor, professore e direttore associato del dipartimento di Economia del MIT, la risposta è no. Ma le macchine cambieranno radicalmente il modo di concepire il lavoro. Basti pensare che, secondo un recente studio, circa il 47% dei mestieri saranno automatizzati nei prossimi anni. Si parla di una “seconda età delle macchine”, in cui i robot saranno in grado di svolgere compiti sempre più intellettuali. Ma perché la tecnologia non ha ancora spazzato via il lavoro? Qui entra in gioco il paradosso di Michael Polany, filosofo ed economista ungherese, secondo cui noi conosciamo tacitamente le cose che cerchiamo di apprendere. Questo avviene, ad esempio, per le attività ripetitive, che possiamo insegnare alle macchine perché siamo stati noi a codificarle. L’intuito, la capacità di parlare le lingue e di adattarsi all’ambiente, sono invece competenze difficili da insegnare perché le abbiamo apprese spontaneamente. Possiamo insegnare l’algebra a una macchina, ma non a camminare. Perché lo abbiamo appreso spontaneamente. Questa è la grande sfida dell’automazione.

Le diseguaglianze minacciano la crescita?

Secondo Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, finché gli studi economici non prenderanno in considerazione il problema delle disuguaglianze, queste continueranno a esistere. Quando si prendono delle decisioni, dobbiamo sempre chiederci chi paga. Per esempio, se alziamo le tasse sugli oggetti di lusso, chi paga? I ricchi che comprano gli oggetti o i lavoratori del settore ai quali potrebbero venire ridotti i salari? Se la Grecia non paga i suoi debiti chi ci rimette? Se vogliamo ridurre le diseguaglianze, possiamo farlo solo con le politiche fiscali. Bisogna capire come funziona il mercato e come tutto questo entra nelle politiche pubbliche, non basta il ministro delle finanze o quello delle politiche sociali.

Come ridurre le diseguaglianze?

In videoconferenza con Daniel Gros e Tito Boeri, nell’ultimo confronto del Festival dell’Economia, Paul Krugmann, premio Nobel per l’economia 2008 e docente di Economia e Relazioni internazionali all’Università di Princeton, ha detto che la disuguaglianza non è un destino, ma una scelta. E possiamo fare molto per ridurla. Le cause sono diverse e per affrontarle dobbiamo muoverci su diverse strade. Negli ultimi anni, i redditi sono cresciuti fra la classe media cinese e per l’1% della popolazione, in altre parole solo per i super ricchi. A volte, pensiamo che solo le soluzioni globali possano essere efficaci, ma forse non è così. Anche il trasporto pubblico locale può essere uno strumento di riduzione delle disuguaglianze, come dimostrano molti studi. Secondo Krugmann – l’Europa – invece di fare politiche di austerità, dovrebbe essere più consapevole che alcune aree geografiche europee sono sottoposte alla competizione dei paesi emergenti. L’immigrazione può essere un modo per migliorare la vita delle persone. Ma ci vogliono delle limitazioni. La libera circolazione del lavoro senza integrazione fiscale crea instabilità. Allo stesso modo, la sostenibilità dei sistemi previdenziali è minacciata dalla disoccupazione. Se i giovani vanno via da un paese, chi pagherà le tasse per sostenere le pensioni?

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