Alfredo Reichlin e la questione meridionale

 Il Mezzogiorno come metafora del fallimento della politica. Alla ricerca di un nuovo modello di sviluppo

Può l’innovazione tecnologica, con il suo corredo di robot industriali, sensori e intelligenza distribuita, liberare gli operai dalla catena di produzione, dai rischi per la salute e contribuire anche a risolvere la questione meridionale più di quanto la politica non abbia fatto negli ultimi quarant’anni? Forse sì, ma con conseguenze sui livelli di occupazione e sulla distribuzione del reddito. Del resto, la tecnologia non è neutra e nel futuro il lavoro non sarà un diritto per tutti. E la questione meridionale diventerà semplicemente una questione globale, perché la vera sfida sarà quella di garantire a milioni di inattivi livelli di consumo adeguati a tenere in equilibrio l’intero sistema.

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Mentre mi trovo nella mia Manduria (TA), per i lavori della vendemmia, che quest’anno promette un’annata eccezionale, recupero tra vecchie carte, il libro di Alfredo Reichlin sui dieci anni di politica meridionale che lo videro protagonista dal 1963 al ’73 come segretario regionale del PCI in Puglia. Solo le pagine ingiallite tradiscono il tempo passato, ma non le idee per un nuovo modello di sviluppo per il Mezzogiorno. Ma quelle idee, che dopo quarant’anni, forse è lecito chiamare illusioni, si sono sbiadite come le sigle e i simboli di una politica che non esiste più. La questione meridionale resta ancora irrisolta, come la Carta Costituzionale di una Italia a due velocità, più facile da cambiare che attuare fino in fondo. Il fatalismo meridionale ha lasciato il campo alla rassegnazione. Perché tanto non c’è niente da fare. Del resto è il calcolo di Tancredi nel Gattopardo: che tutto cambi perché nulla cambi, se non in apparenza. E secondo Alfredo Reichlin che ci fosse questo rischio era già vero quarant’anni fa quando certe forze di governo scoprirono la necessità di un nuovo modello di sviluppo che facesse leva sul Mezzogiorno, «prima parlandone un po’ a vanvera così da suscitare fastidio e noia», per poi ritornare alla solita pratica di governo che di fatto «sacrificava il Sud, facendo pagare il costo della crisi alle masse popolari e ai settori più deboli della società italiana».

Formiche e giganti

Alfredo Reichlin è nato nel 1925 a Barletta, oggi è presidente del Centro studi di politiche economiche (CESPE). La biografia politica di Alfredo Reichlin comincia nella Roma occupata dai nazisti. Nell’anno che precedette la caduta del fascismo conosce Pintor, Pavese, Balbo. Dopo l’otto settembre e durante l’occupazione di Roma da parte dei tedeschi aderisce ai GAP. Dopo la Liberazione entrò nella redazione dell’Unità dove lavorò per diciassette anni prima come redattore e poi come direttore dell’edizione romana dal 1957 al 1962, anno in cui si trasferì a Bari come segretario regionale del PCI pugliese. La sua passione politica lo ha portato se non a “volere la Luna” quantomeno a lottare per il progresso del Paese, senza mai dimenticare, citando Tommaso Fiore, quel «popolo di formiche», la cui laboriosità «avrebbe spaventato un popolo di giganti». Di quell’eroica resistenza umana del lavoro, oggi restano solo i muretti a secco. E le formiche si sono alleate con i giganti.

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Deputato dal 1968 al 1994, tra i fondatori del Partito democratico, riformista e teorico delle alleanze, perché l’Italia è un Paese complesso, il senso della storia non gli fa difetto. Politico puro, più attirato dall’analisi che dall’azione, quando la politica significava qualcosa. Per sua stessa ammissione inadatto a fare pronostici, ma a rileggere i suoi scritti, capace di anticipare la crisi della turbofinanza, dei tecnici al controllo della politica e dei politici ridotti a fare le comparse televisive. Oggi, in cui nessuno capisce più niente di ciò che sta accadendo, rileggere queste pagine ingiallite è come vedere di colpo il disegno senza unire i puntini.

Patti per il Sud

Un quadro che con alterne vicende sembra ripetersi a ogni stagione politica. Come del resto dimostra il tavolo dei 16 Patti per il Sud che stanzia fondi per le infrastrutture per le regioni e da cui fino all’ultimo momento era restata fuori la Puglia proprio in segno di protesta. Ma in tempo di crisi, meglio prendere quello che c’è e soprattutto – come si dice – pochi, maledetti e subito. Secondo i conti del CIPE, alla regione spetterebbero poco più di due miliardi di euro, compresi quelli per Taranto e Bari. Ma nelle pieghe di questi fondi si può leggere la storia di una straordinaria sottrazione di risorse stanziate per il Sud. Una storia che viene da molto lontano. Del resto, fin dagli anni Sessanta, si è dipanata una dialettica politica tra “vecchio” e “nuovo” che alla luce dei fatti più recenti si stenta veramente a comprendere, per via del continuo scivolamento dell’uno nell’altro e della spaccatura tra principio di responsabilità, rappresentanza e delega politica, che ha ridotto la coscienza civile a piccola rappresentazione dei bisogni egoistici.

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La crisi ha riportato la questione dello sviluppo del Sud al centro del dibattito sul ruolo internazionale dell’Italia non solo in Europa ma nell’intero bacino del Mediterraneo. Il divario economico tra Nord e Sud deve essere letto anche come frattura politica e culturale, alla luce di un capitalismo di Stato che da un lato ha permesso la crescita degli strati intermedi ma ha tolto forza alla libera iniziativa di impresa. Si tratta, come ricorda Reichlin più di quarant’anni fa, di superare vecchie arretratezze e di rompere la logica di potere delle clientele locali che di fatto hanno condizionato non solo lo sviluppo industriale, ma anche la naturale vocazione dei territori, che si sono arresi al colonialismo dei gruppi monopolistici, al saccheggio delle risorse e alle cattedrali nel deserto, riproponendo il dilemma tra lavoro e salute, tra agricoltura e industria.

Un nuovo tipo di sviluppo?

Si discute da decenni e da diverse parti sulla questione di un nuovo tipo di sviluppo che faccia del Mezzogiorno non un’area da assistere ma un’occasione per determinare un modello economico diverso capace di utilizzare le risorse umane e materiali del Paese. Ma quali sono i fattori trainanti dello sviluppo? Se i piani dei poli industriali hanno fallito per mancanza di visione, allora forse è arrivato il momento di puntare sull’agricoltura e l’innovazione delle filiere grazie alla tecnologia, ma per farlo bisogna puntare sulle grandi infrastrutture, prima fra tutte la banda larga, seguita subito dopo dalle opere per l’assetto idrogeologico del suolo e per i trasporti ecosostenibili. Gli sviluppi della rivoluzione scientifica e tecnologica possono portare a un nuovo modello che la politica fino a ora non è riuscita neppure a immaginare. La Puglia come “la Milano del Sud”, “il triangolo Bari-Taranto-Ferrandina” sono rimasti luoghi comuni del rapido sviluppo industriale anni 70, caratterizzato da insediamenti produttivi di grandi dimensioni e ad alta intensità di capitale pubblico come l’Italsider di ieri e oggi ILVA con tutto il suo cumulo di contraddizioni. Oggi possiamo dire, che i giganti industriali hanno operato da fattori di squilibrio più che di reale sviluppo. E ricorda Reichlin, citando un articolo dell’Economist della fine del 1964, che visitando Taranto e Bari si poteva capire che la spinta degli investimenti si era già smorzata con la fine degli incentivi di Stato e che non avevano favorito la nascita di un vero tessuto imprenditoriale di piccole e medie imprese.

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Parallelamente sul fronte dell’agricoltura si è assistito alla intensificazione delle coltivazioni con la conseguente dequalificazione per anni delle produzioni di pregio, che di fatto hanno posto le condizioni per quella che Reichlin giustamente definisce di “disimpegno culturale” dei contadini unici veri custodi del territorio come l’emergenza Zylella, che ha colpito l’oliveto pugliese (una delle più grandi fabbriche del Mezzogiorno per valore della produzione), ha nei fatti dimostrato. Oggi, la tendenza di una agricoltura che non produce “eccellenze”, ma solo materie prime per l’industria che opera fuori dalla Regione, si sta invertendo, grazie all’opera di nuovi giovani imprenditori e all’azione di enti di protezione e promozione come i Gruppi di Azione Locale, come quello delle Terre del Primitivo. Ma la strada da fare per recuperare il tempo perduto è ancora tanta e non priva di insidie. Non ci si può illudere però di creare sviluppo creando a costi maggiori doppioni di imprese che già esistono altrove. E non si può neppure sperare nel trampolino della spesa pubblica per creare posti di lavoro. Bisogna invece mettere l’industria nelle condizioni di dialogare con l’ambiente urbano, bonificando i territori e dando vita a una nuova generazione non di contadini prestati all’industria, ma di knowledge worker, capaci di portare l’efficienza delle organizzazioni complesse anche al servizio dell’agricoltura e del turismo. Uno sviluppo che sia autonomo e autosufficiente in grado di mobilitare le risorse materiali del territorio e il talento dei giovani. La questione meridionale può essere risolta solo attaccando al cuore il sistema nel suo complesso, che ci sta mettendo di fronte il conto di un modello che ha disarticolato l’organizzazione del potere politico, l’organizzazione del mercato, e quindi del potere sul mercato e sulla finanza, che ormai si sottrae alla responsabilità dei suoi investimenti.