Chip sottopelle, i dati del futuro saranno dentro di noi

Chip sottopelle, i dati del futuro saranno dentro di noi

Sono già 50.000 le persone in tutto il mondo con chip sottopelle

Avere documenti di riconoscimento sottopelle sotto forma di chip non è più fantascienza. Chiavi di casa, carte d’imbarco e informazioni personali di vario tipo possono davvero viaggiare con noi, racchiuse dentro al nostro corpo sotto forma di chip. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal sarebbero già quasi 50.000 le persone che si sono fatte «taggare» con un dispositivo sottopelle, con applicazioni che vanno dall’accesso ai parcheggio aziendali ai dati medici per le emergenze.

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Chip minuscolo e facile da impiantare

Denominati Rfid (Radio frequency identification device), gli impianti misurano solo pochi millimetri e vengono iniettati nei tessuti grassi in pochi secondi. Un’operazione che non richiede particolari abilità, tanto che esistono anche kit per il «fai da te» venduti online. I device si attivano e vengono letti da radiofrequenze come quelle usate dagli smartphone o dai lettori di carte magnetiche all’entrata di edifici.

C’è persino chi ha più di un tag sparso per il corpo, come un uomo di 32 anni olandese che ne possiede diversi, per differenti scopi: aprire la porta di casa, entrare nel parcheggio aziendale o essere riconosciuto in ufficio.

Lo scorso anno Andreas Sjostrom, un dirigente svedese, ha fatto parlare di sé per aver sperimentato la tecnologia come carta d’imbarco per i voli della Scandinavian Airlines. A questo punto è lecito aspettarci presto, come anticipano i fautori, anche la comparsa di applicazioni mediche sottopelle contenenti le informazioni necessarie in caso di interventi d’urgenza, che un eventuale operatore di pronto soccorso potrebbe scansionare all’istante. Alcuni invece hanno già la lista dei contatti di emergenza salvata sul device.

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Implicazioni etiche e problemi di sicurezza

Come sempre in questi casi si parla anche delle possibili implicazioni etiche negative: «L’uso di un tag è eticamente accettabile ad esempio per una persona che non può tenere una chiave a causa di un’artrite grave o che ha perso la mano – afferma ad esempio Arianne Shahvisi della Brighton and sussex Medical School -. Ma se si usano per persone con demenza per trasportare le informazioni che le identificano e per essere sicuri che non perdano le chiavi, potrebbe essere un problema, perché il paziente potrebbe non essere in grado di dare il proprio consenso informato». 

Anche dal punto di vista della sicurezza dei dati non si può ancora stare tranquilli, dato che al momento non è stato ancora possibile cifrarli.