Lavoro digitale moltiplicatore di risorse

Le tavole rotonde di Data Manager e UniCredit tornano a occuparsi di smart working, coinvolgendo i partecipanti in una discussione sulle strategie messe in atto in seno dalle aziende. Con un occhio a fenomeni come IoT, smart city e informatica cognitiva

Le tecnologie e la convergenza digitali hanno reso possibile uno stile lavorativo sempre più libero dagli originari vincoli di spazio e tempo, in linea con gli sviluppi evolutivi di un business e di uno stile di vita anch’essi sempre più digitali e il corrispondente affermarsi di nuovi modelli organizzativi e manageriali. In altre parole, concetti come collaborazione e smart working non si riducono più all’uso di strumenti “salva-tempo” (e spese di trasferta) come la videoconferenza o del part-time, ma modificano profondamente l’operatività di una impresa, la sua capacità di centrare gli obiettivi strategici, di governare la complessità dei progetti e di rispondere con rapidità e duttilità alle sfide della competizione sui mercati, della ricerca di nuove opportunità anche attraverso nuove forme di alleanza e ridistribuzione dei ruoli, interni ed esterni. Il primo fenomeno osservato da IDC Italia, rappresentata alla tavola da Daniela Rao, senior consulting & research director, è l’evoluzione tecnologica di strumenti e piattaforme che supportano la collaborazione in azienda e quindi lo scambio delle informazioni, la fluidificazione dei processi di business. «Siamo partiti molti anni fa con i centralini, le infrastrutture per videoconferenza, le WAN su ethernet. Oggi, si stanno aggiungendo elementi come la convergenza fisso-mobile e la fluidità dell’interscambio tra device sia all’interno sia fuori dai perimetri aziendali. Su questo fronte sono in arrivo evoluzioni importanti come la virtual o l’augmented reality, il nuovo fronte dei sensori, dei wearable che vediamo già applicati in qualche azienda del mondo manifatturiero e dei trasporti in Italia, con la permanenza dello smartphone al centro di tutto l’ecosistema». Oggetti, prosegue Daniela Rao, che si adattano di volta in volta alle specificità del settore di riferimento e sono accompagnati, su un altro versante, da investimenti finalizzati sia alla virtualizzazione dei servizi di rete, o Software Defined Networking, con un graduale spostamento verso il cloud, sia all’integrazione in uno spazio di lavoro smart, automatizzato. Sono componenti – ha spiegato Daniela Rao – «che prima non erano tipicamente parte del sistema informativo e oggi appartengono all’insieme di satelliti intorno alla funzione primaria che è quella di comunicare voce e testi». Su questo fronte si posizionano applicazioni mobili e social, sempre più integrate, come l’ormai imperante WhatsApp, per un mercato complessivo che in Italia vale circa il 4% della spesa IT complessiva, cioè circa 300 milioni di euro.

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DALLE TELCO ALLE “AZIENDE DATACENTER”

Per le aziende italiane, sulla base degli ultimi rilevamenti effettuati da IDC, la Unified Communication non ha priorità in sé elevate, ma questo significa poco. «La vera priorità di investimento è il cloud ma spesso dimentichiamo che il cloud si porta dietro esattamente questo tipo di applicazioni, che sono una componente importante della virtualizzazione». Ma chi affiancherà le imprese italiane in questi investimenti? «Se si parla semplicemente di voce e dati, gli operatori TLC hanno ancora una bella fetta del mercato» – ha risposto Daniela Rao. «Ma se parliamo di servizi IT, del cloud che comprende ormai anche la collaboration, cresce il ruolo del fornitore IT, delle aziende di hosting, quella che IDC chiama ormai “aziende-datacenter”». Il loro messaggio, ha concluso Daniela Rao, deve sempre evidenziare i vantaggi economici e di maggiore velocità ed efficienza che gli strumenti della collaboration possono portare attraverso il loro effetto di “fluidificazione” e accelerazione dello scambio informativo e dei processi di lavoro, fattori percepiti come determinanti ai fini della competitività e dell’agilità delle aziende. «Un fenomeno – spiega l’analista – che sarà favorito da un’altra evoluzione recente: la crescente modularità delle soluzioni e degli strumenti, visti sempre più in una logica non di possesso di piattaforme generalizzate ma di uso pratico, as you go, di strumenti specifici».

 

Per Davide Rimonta, head of Real Estate Transformation di UniCredit, il percorso pionieristico affrontato già a partire dal 2011 consente di definire il concetto di smart working in seno all’importante gruppo bancario come “main stream”, un fatto acquisito. Rimonta si sofferma sulla definizione di smart working secondo UniCredit. Una modalità di lavoro nuova, «basata – afferma il manager – su due pilastri fondamentali: come sono fatti gli spazi nell’ufficio, con una rivisitazione fisica dello spazio e una diversa flessibilità nella scelta del luogo di lavoro, che per esempio si traduce nella possibilità di lavorare un giorno a settimana da casa». Ma in un prossimo futuro UniCredit sta già studiando la possibilità di passare a due giorni. La rivisitazione dello spazio si muove per esempio lungo la direttrice della condivisione. «Uno spazio fisico rigidamente allocato comporta sempre una certa percentuale di capacità non utilizzata» – ha precisato Rimonta. L’abbiamo eliminata, mettendo lo spazio a fattor comune». L’analisi dettagliata degli spazi del lavoro ha permesso a UniCredit di escogitare un approccio diverso nelle aree inizialmente adibite alla sperimentazione. Le risorse individuali, come le scrivanie, sono state trasformate in un pool ridotto di risorse che gli impiegati utilizzano in modo dinamico, occupando la prima scrivania libera. La percentuale di riduzione applicati è dell’80 per cento: ottanta scrivanie, ogni cento dipendenti, sufficienti ad assicurare una postazione di lavoro a tutti i presenti.

UFFICIO CASA E “THIRD PLACE”

Agli spazi fisici così organizzati sono state apportate modifiche che favoriscono la condivisione in funzione delle attività svolte. Per facilitare i meeting, esistono opportune sale riunioni flessibili, acusticamente isolate, che migliorano l’esperienza fisica con gli strumenti della collaboration virtuale. Le tecnologie implementate vanno dalle dotazioni individuali standard – un personal computer portatile che ha finito per prendere il posto di soluzioni di virtual desktop anche per favorire il costante passaggio dello smart worker dall’ufficio all’abitazione – fino alle avanzate piattaforme IoT, che nella sede veronese del Gruppo, consentono una gestione “fact based” e real time delle infrastrutture di ufficio, diventate a loro volta “smart”, anche perché completamente integrate con sistemi di building management. «A livello globale, oggi ci sono 7.500 persone, 4.500 persone in Italia. Una gestione digitale ci permette di capire se stiamo andando troppo in là con la condivisione, se dobbiamo allentare». Secondo Rimonta, lo smart working ha sicuramente favorito UniCredit in uno sforzo di razionalizzazione, che ha portato a un notevole consolidamento del numero di edifici. Ma il bello di uno spazio di lavoro più intelligente, consiste anche nella possibilità di eleggere situazioni diverse a “luogo di produzione”. «Dove ci siamo compressi, riducendo lo spazio, possiamo espanderci attraverso i cosiddetti third places» – ha spiegato Rimonta. Il binomio ufficio-casa non esaurisce le possibilità riservate allo smart worker e alla sua capacità di comunicare, collaborare, produrre. La smart city mette a disposizione tantissime alternative: una filiale più periferica, vicina al luogo di residenza, i nuovi hub condivisi che UniCredit sta realizzando in diverse città, gli spazi di co-working pubblici e privati. Sempre all’insegna di una flessibilità governata dalle tecnologie e dalle informazioni monitorate in real-time.

Ma che cosa significa oggi parlare di ambiente collaborativo? La parola chiave per la collaboration vista dal Gruppo Versace, rappresentato alla tavola dal suo CIO Giuseppe Zambarbieri, è “virtual company”. La situazione del grande marchio della moda italiana è molto simile a quella di tantissime aziende che operano dentro a un fitto ecosistema di fornitori. «Una delle esigenze fondamentali da cui siamo partiti era poter avere un ambiente collaborativo con i nostri fornitori, con le aziende con cui co-produciamo. Abbiamo effettivamente bisogno di essere molto vicini da un punto di vista della collaborazione. La finalità è anche scambiarci informazioni semplici, previsioni, piani, ordini, dati di tipo transazionale e no». Ma c’è anche un’altra esigenza, che il digital business ha fatto emergere da una relazione antica: quella tra impresa e cliente, evolutasi verso vere e proprie forme di collaborazione tra brand e coloro che non si limitano più ad acquistare prodotti e consumare servizi, ma aiutano con il loro comportamento a indirizzarne l’ideazione e la commercializzazione. L’altra forte componente – ha continuato Zambarbieri – è costituita dai clienti: «Versace vuole portare nei negozi una tecnologia che consenta di tenere agganciati i clienti, in un’ottica di mutuo scambio di informazioni finalizzato allo sviluppo di nuovi servizi». L’IT di Versace ha avviato una fase pilota, installando sensoristica, camere e altri strumenti che permettono di acquisire dati sul modo in cui il consumatore si avvicina al brand e da cui ricavare informazioni utili per nuove forme di proximity marketing. «Nel nostro mondo, dove il consumatore passa dal digitale al fisico con una facilità estrema, domina il concetto di omnicanalità: predisporre una capacità di servire il cliente qualunque sia il suo comportamento d’acquisto è una forma di collaborazione».

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UN TESORO DI LAVORO

Al di là della relazione tra cliente e brand, Zambarbieri non ha dimenticato però le esigenze interne che arrivano “dal basso”, dettate da “stili lavorativi” molto diversi rispetto al passato. «Siamo in piena fase di disegno di quello che Rimonta di UniCredit ha chiamato “smart workplace” per realizzare una piattaforma collaborativa digitale» – ha concluso Zambarbieri. «Nella mia esperienza professionale non avevo mai operato in una multinazionale italiana, per la prima volta osservo dal “centro dell’impero” e capisco quanto sia importante per i satelliti sentirsi il più vicino possibile a questo centro attraverso gli strumenti della smart collaboration». User e customer experience sono due aree di forte impatto per la digitalizzazione, ha osservato dal canto suo, Michele Dalmazzoni, Collaboration & Smart Industries leader di Cisco Italia. E le ultime osservazioni del responsabile tecnologico di Versace richiamano alla mente una questione finora solo accennata. «La verità è che le aziende, a maggior ragione quelle italiane, siedono su un tesoro ancora poco sfruttato. Questo tesoro è rappresentato dalle risorse che oggi vengono utilizzate per lavorare nel modo tradizionale e che invece potremmo liberare per finalizzarle a modalità di lavoro supportate dal digitale».

Dalmazzoni ripercorre la storia delle prime soluzioni di videoconferenza, proposte come alternativa alle trasferte di lavoro con il preciso obiettivo di ridurre i costi. Peccato, osserva l’esperto, che nessuno si preoccupasse di introdurre processi e strumenti che fossero di disincentivo ai viaggi, o che permettessero di rendere meno “time consuming” (e quindi costosa) l’organizzazione delle riunioni fisiche. «È un viaggio lungo, una trasformazione che richiede cultura oltre che gli strumenti giusti». Un altro fattore molto importante per Dalmazzoni è la leadership, indispensabile per un cambiamento incredibilmente interdisciplinare, che ha dentro di sé elementi come il confronto tra le generazioni, la familiarità dei giovani lavoratori con strumenti di comunicazione nuovi e poco conosciuti dai loro colleghi più anziani, la necessità – evidenziata anche nei primi interventi a questa tavola rotonda – di ripensare in qualche misura gli spazi fisici, sulla progettazione di interi edifici, il dialogo che la tecnologia deve stabilire con il capitale umano e immobiliare. «Il software è importante, ma nell’era dell’IoT, la magia succede dove componente software e componente fisica si incontrano, plasticamente rappresentati da IT e real estate» – ha affermato il rappresentante di Cisco, suggerendo ai suoi colleghi di visitare il portale Project Workplace, che Cisco ha realizzato proprio per dare un’idea più concreta di come i suoi prodotti di unified communication e collaboration, le interfacce disegnate per assicurare una user experience gradevole e al tempo stesso produttiva, gli elementi di automazione e intelligenza artificiale che rende più adattativa e naturale questa esperienza, contribuiscono alla trasformazione del posto di lavoro in chiave digitale. Con costi che non sono più così elevati, e un approccio strettamente cloud che rende ancora più facili i cambiamenti incrementali, modulari. Una piattaforma di collaboration come Cisco Spark mescola cloud e hardware, strumenti come le white board perfettamente integrate nei vari formati di visualizzazione, dal grande schermo a parete al tablet in mano ai partecipanti a una riunione. «Possiamo liberare risorse, ritagliando soluzioni per indirizzare tutte le esigenze con il giusto pricing».

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Dalmazzoni @CiscoItalia Dalla #collaboration person-to-person a quella M2P – Videointervista

SMART “DOCTORS”

Se c’è una realtà particolarmente bisognosa del cambiamento raccontato fin qui, è il settore della sanità e della cura della persona. «Il mondo della sanità in Italia è assolutamente obsoleto, dal punto di vista dei processi e dell’edilizia» – ha ammesso Gianluca Cavalletti, Group CIO del Gruppo Ospedaliero San Donato. «Un mondo che si porta dietro tutta una serie di vincoli anche dal punto di vista di una innovazione fatta anche di integrazione tra gli strumenti diagnostici e tutta la parte di facility, ingegneria clinica e infrastruttura IT». Nelle diverse sedi del Gruppo, Cavalletti non è chiamato a servire solo la parte amministrativa, la parte contabile e tecnologica. «Gli ospedali sono soprattutto i luoghi che accolgono utenti, che fruiscono dei nostri servizi, dove forniamo un certo tipo di cure, dove abbiamo tutti i nostri apparati diagnostici, che sono strumentali ai trattamenti erogati e devono interagire con l’informatica». Da un anno e mezzo, prosegue Cavalletti, il Gruppo San Donato (GDS) sta affrontando un ambizioso progetto di trasformazione digitale, che parte dagli edifici (prevista la costruzione di un ospedale ortopedico interamente nuovo e di un nuovo pronto soccorso per l’ospedale San Raffaele) con soluzioni fisiche e software, che consentano di efficientare l’uso degli spazi, dove ogni anno vengono operati 4 milioni e mezzo di pazienti, e la relazione con questi ultimi. «Tuttavia, stiamo affrontando anche l’aspetto dei processi clinici e quindi dell’economia di scala e delle sinergie tra i vari processi, con software che ci permettano di condividere informazioni sul paziente, tenendo conto della sicurezza e della privacy». Più in generale si tratta di predisporre un workplace che favorisca la comunicazione tra gli operatori. Il GDS affronta anche tematiche di business intelligence che possano far leva sui tre poli universitari interni agli ospedali del gruppo dove hanno luogo sperimentazioni sull’analisi statistica e predittiva di alcune malattie. «Il tema principale – osserva il responsabile IT dell’importante struttura sanitaria – è favorire la collaborazione tra medici di diversa specializzazione, anche quando lavorano in team e su turni diversi, oppure operano in situazioni particolari». Come il cardiochirurgo Carlo Pappone, che per la cura delle aritmie ha messo a punto un intervento basato su una tecnica di ablazione dei tessuti, effettuata con scosse elettriche, generate da piccoli magneti, inseriti direttamente nel cuore. «Un intervento che Pappone può effettuare a distanza, da casa propria, in realtà aumentata. Anche questo è smart working».

Gradualità e modularità di approccio sono due concetti che riaffiorano subito nel discorso di Paolo Sassi, Group IT director di Artsana, azienda con una variegata gamma di servizi, che parte dai diversi brand specializzati in baby care, un’area che vede Artsana anche come operatore retail. «In materia di collaboration, non abbiamo un’esperienza codificata» – ha raccontato Sassi. «Vediamo la presenza di tanti strumenti che cambiano il nostro modo di lavorare e cerchiamo di valutarne i benefici». Questo approccio per così dire “trial and error” è legato, secondo Sassi, al cambiamento avvenuto in particolare nell’ambito della comunicazione e della condivisione delle informazioni, dove contrariamente da quanto avveniva in passato, «molte delle tecnologie ci vengono praticamente imposte dall’ecosistema in cui viviamo. Whatsapp in apparenza è lo strumento meno aziendale che si possa immaginare, ma oggi è la forza delle cose, non si può evitare di prenderlo in considerazione se ci si occupa di IT anche se non si devono perdere di vista aspetti come la sicurezza». Il cambiamento, prosegue Sassi, è spesso un mosaico di piccole tessere che possono portare a cambiamenti radicali. «A proposito di collaborazione penso per esempio al co-editing di documenti, una soluzione banalissima ma di straordinaria potenza, che accorcia drammaticamente i tempi di stesura e approvazione». I singoli passi della trasformazione, conclude l’IT manager di Artsana, possono essere modesti, ma il risultato finale è uno scenario completamente nuovo rispetto al passato».

CONTINUITÀ TRA VECCHIO E NUOVO

Le difficoltà vissute da chi oggi vuole progettare un efficace sistema digitale di collaboration sono sicuramente legate all’eterogeneità delle soluzioni di cui disponiamo. Per Orange Business Services, la sfida nel rispondere alle richieste di unified communication and collaboration del cliente, si vince soprattutto con l’esperienza vissuta da un’organizzazione estesa e complessa che – come racconta il managing director Southern & Central Europe, Bernardo Centrone – ha dovuto affrontare il cambiamento in prima persona. Con tutti i problemi di un Gruppo «che al suo interno ha tutte le cose di cui stiamo parlando: i grandi uffici, le persone, le fabbriche virtuali in cui mettiamo a punto nostri prodotti virtuali. Per natura siamo virtuali anche come organizzazione, ci riorganizziamo intorno al cliente, non sappiamo a priori da dove arriveranno lo sviluppo e il supporto che saranno necessari». Orange Business Services può contare su una rete di centri di competenza e su talenti mobili e flessibili, ma il tutto ha una geometria assai variabile. «Una complessità legata alla natura del lavoro, alle esigenze del mercato. Se non fossimo così smart, la concorrenza sarebbe più smart di noi». Tuttavia, ammette Centrone, ci sono progetti di smart working per cui è davvero difficile dare la giusta priorità a tutte le cose da fare e dare la giusta spinta unificante. «Un anno fa, abbiamo deciso internamente di adottare la metafora di Facebook, costruendo un vero e proprio enterprise social network, aperto all’integrazione delle applicazioni che di volta in volta ci serviranno». Un progetto ambizioso che, precisa Centrone, ha richiesto il forte coinvolgimento di tutto il management, oltre alla nomina di una figura specifica, il digital ambassador, cha ha assunto un fondamentale ruolo di leadership nella trasformazione. «In conclusione, il primo concetto di strategia interna che mi sento di consigliare a tutti i nostri clienti è la scelta della piattaforma, delle cose che vuoi fare e di obiettivi misurabili» – afferma Centrone. Secondo concetto importante: l’operatività, la continuità con il pre-esistente, perché abbiamo visto troppi progetti faticare o fallire a causa delle complessità di tecnologie nuove da interfacciare sia con strumenti più tradizionali sia con quanto verrà in futuro».

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Mentre la conversazione intorno al tavolo si avvia alla conclusione, l’animazione cresce ed emergono continuamente temi nuovi. Un richiamo particolarmente interessante è per esempio quello di Ezio Aprile, CIO di Gruppo BCUBE, lo specialista di servizi di logistica in outsourcing che vanta una presenza molto capillare, intrecciando relazioni con numerosi clienti di ogni settore, forte di un totale di circa seimila dipendenti sparsi in oltre 100 filiali, tra Italia ed estero. Aprile ha parlato dei progetti BCUBE orientati alla collaboration, partendo dalla sede principale, recentemente trasferita in un edificio di nuovissima concezione. «Una delle difficoltà maggiori per chi vuole far progredire una organizzazione è sicuramente di natura culturale. Facendo outsourcing, “adottiamo” i nostri clienti, i loro sistemi e i nostri processi vengono a loro volta contaminati» – ha spiegato il responsabile delle tecnologie di BCUBE. Per le sue esigenze di unified communication, l’azienda utilizza TelePresence, oggi già installata in una dozzina di filiali, e altre tecnologie di messaggistica e comunicazione targate Cisco. «In questo momento – ha proseguito Aprile – partendo dalla nuova sede, il Gruppo sta esplorando le opportunità di interconnessione delle altre filiali e sta studiando possibili strategie di smart working e lavoro flessibile, per facilitare l’utilizzo di strumenti di collaborazione virtuali. A questo proposito, uno degli interrogativi che deve ancora trovare risposta, è l’inquadramento normativo del collaboratore che non risiede fisicamente in ufficio, oltre – ha conclude Aprile – ad altri fattori che sfuggono a un controllo centralizzato, come la qualità delle connessioni e così via».

UNA GUIDA FORTE

Da Davide Rimonta arriva una risposta chiarificatrice sui modelli di inquadramento che UniCredit ha adottato nei suoi progetti di lavoro “da casa”. In linea di principio, ha spiegato Rimonta, il collaboratore che aderisce a questa forma di flessibilità sottoscrive un accordo individuale, formalmente diverso da un contratto di telelavoro. In questo modo, vengono meno determinati obblighi e oneri, come la certificazione dell’ergonomia delle postazioni domestiche o la copertura delle spese di connettività. L’ufficio in casa è considerato un benefit che il collaboratore riceve assumendosi personalmente la responsabilità dell’ergonomia e delle spese di telecomunicazione. E si ritorna così, al momento dell’ultimo intervento, quello di Davide Blanchetti, responsabile domanda e sviluppo applicativo di Edenred, alla questione di fondo di una ricetta di trasformazione in cui le tecnologie non sono l’unico e forse nemmeno il più importante ingrediente. L’azienda famosa in Italia per il suo brand Ticket Restaurant ha subito una notevole trasformazione, all’interno e all’esterno, sotto la spinta della progressiva dematerializzazione e arricchimento, in termini di servizi offerti, del suo prodotto, e con il diversificarsi dei canali di relazione. «Le esperienze dal punto di vista dello smart working in Edenred sono ancora in divenire» – ha spiegato Blanchetti. «Oggi, l’azienda sta attraversando un vero e proprio stravolgimento del proprio business, del rapporto con i clienti, avvicinandosi sempre di più a coloro che sono i veri beneficiari dei nostri servizi: i singoli dipendenti dei nostri clienti». Edenred, prosegue Blanchetti, vive una trasformazione analoga alla digitalizzazione dei servizi di pagamento e in questo senso il tema da affrontare è, come ripetuto più volte nel corso della nostra conversazione, soprattutto culturale. «Ci sono aree, come le vendite, la rete sul campo, dove fare smart working è molto più facile. E ce ne sono altre, meno esposte all’esterno, dove è più difficile connotarlo. Che scelte dobbiamo fare, dunque? Devo pensare lo smart working per singole aree o esistono delle regole che possono essere trasversali»? La risposta più corretta, ipotizza Blanchetti, sta nella miscela dei due approcci, che Edered ha adottato per la prima fase di introduzione dello smart working nell’ambito della divisione dei servizi informativi, che esercita una spinta “dal basso” verso una piena adozione di certi paradigmi. Mentre “dall’alto”, conclude Blanchetti con un messaggio di portata universale: «Non si può fare a meno di una forte guida, di un chiaro, motivato coinvolgimento del management. La collaborazione digitale deve appartenere a tutti, capi e decisori compresi».