CO2, un compromesso per rompere l’impasse sui cambiamenti climatici

Il carbon budget della Terra fino al 2050 per restare sotto un aumento della temperatura di 2°C entro il 2100 è di 420 Giga tonnellate di CO2. Uno studio dell’Università di Milano-Bicocca e della Brown University appena pubblicato su Nature Climate Change propone una “cura” in 4 punti per rompere lo stallo sul clima: calcolare le emissioni in base al consumo, spostare la discussione dall’ONU al MEF, distribuire il carbon budget democraticamente e riportare il compromesso raggiunto all’ONU

Se il calcolo delle emissioni di CO2 passasse da un conteggio basato sulla produzione (com’è attualmente) a uno basato sul consumo, col quale cioè le emissioni vengono imputate ai paesi dove i beni e i servizi che le hanno generate vengono realmente consumati, da qui al 2050 la Cina potrebbe aumentarle del 3.6 per cento, la Russia del 2, l’India andrebbe in pari e gli Stati Uniti dovrebbero ridurle solo del 1.9 per cento.

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In questo modo potrebbe essere raggiunto l’obiettivo di non superare il tetto di 420 Giga tonnellate di CO2 da combustibili fossili (il cosiddetto carbon budget) che l’umanità ha ancora a disposizione fino al 2050 se vuole contenere l’aumento della temperatura media globale entro i due gradi centigradi al 2100, soglia ritenuta di ‘non-ritorno’.

Il cambio della base di calcolo delle emissioni di gas serra è uno dei quattro elementi della proposta contenuta nello studio (A compromise to break the climate impasse, Doi 10.1038/nclimate2259) di Marco Grasso, del dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca e J. Timmons Roberts, dello Institute for the Study of Environment and Society della Brown University, appena pubblicato online dalla rivista Nature Climate Change.

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Gli altri tre elementi suggeriti dai ricercatori per raggiungere, appunto, un compromesso che permetta di rompere lo stallo sulle decisioni per limitare il climate change sono, nell’ordine, 1) limitare la discussione iniziale ai 13 Paesi MEF (Major Economies Forum) dove gli accordi potrebbero essere raggiunti più agilmente rispetto alle Nazioni Unite; 2) distribuire il carbon budget fra i Paesi in base ai principi di responsabilità (calcolata sullo storico delle emissioni di CO2 dal 1990 al 2010) e ricchezza (calcolata in base al Pil pro capite); 3) riportare infine il compromesso raggiunto fra i membri del MEF in sede Onu dove a quel punto sarebbe più semplice estenderlo a tutti gli altri Stati.

Ma come funziona la contabilità di CO2 basata sul consumo? Attualmente la contabilità delle emissioni registra quelle effettivamente prodotte da ciascun Paese. L’idea dello studio è invece di imputare le emissioni di CO2 ai Paesi dove i beni e i servizi prodotti sono realmente utilizzati e consumati. Ad esempio, le tonnellate di gas serra immesse nell’atmosfera dalla Cina per produrre le auto che poi sono vendute sul mercato europeo andrebbero imputate all’Unione Europea e sottratte alla Cina.

«Il passaggio da una contabilità della CO2 basata sulla produzione a una basata sul consumo – spiega Marco Grasso – aiuterebbe a trovare un accordo sul clima perché i due Paesi leader sulla scena mondiale, Cina e Stati Uniti, sarebbero, rispettivamente, avvantaggiati o non eccessivamente penalizzati e quindi sarebbero invogliati a adottare un’azione internazionale concertata per abbattere le emissioni. La riduzione di emissioni del 2 per cento entro il 2050 per gli Usa è addirittura al di sotto degli obiettivi recentemente fissati dal presidente Obama».

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Il “costo” più alto in termini di riduzioni delle emissioni sarebbe sostenuto dall’Unione Europea che, con il nuovo sistema di calcolo basato sui consumi, sarebbe costretta ad abbatterla del 7 per cento.

«Tuttavia – aggiunge Grasso – anche l’Unione Europea troverebbe la sua convenienza in questo compromesso. La UE, infatti, ha definitivamente perso la leadership sul clima dopo la conferenza di Copenaghen del 2009. Sopportando e sostenendo una riduzione così consistente tornerebbe a giocare un ruolo centrale nelle politiche internazionali sul clima e sulla protezione dell’ambiente».