La via italiana alle Smart Cities

“La mia visione è invece una città a misura d’uomo, e rispettosa dell’ambiente. Una città che non punti a diventare un hub nevralgico della competizione globale e accelerata, ma un luogo dove innovazione e tradizione, attività culturali ed economiche, imprenditoria for-profit e iniziative sociali devono convivere in maniera armonica”. Intervista ad Andrea Granelli, presidente e fondatore di Kanso e autore del libro “Città intelligenti? Per una via italiana alle Smart Cities”

Poco meno di un anno fa sono stato presente allo Smart City Expo di Barcellona, era la prima edizione e i casi di successo erano ancora pochi nel mondo e in Italia pochi parlavano di città intelligenti. Ora lo scenario è completamente cambiato, sono arrivati i bandi europei, i PON e tutti sono diventati esperti di sensori e tecnologie abilitanti. Qual è la realtà e, soprattutto, i modelli che hanno avuto successo nelle megalopoli sono adatti al tessuto italiano?

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Ne ho parlato con Andrea Granelli, presidente e fondatore di Kanso e autore del libro Città intelligenti? Per una via italiana alle Smart Cities

Quest’anno c’è stato il boom, tutti parlano delle Smart Cities, in realtà cosa sono?

Nel 2008, per la prima volta nella storia, la maggioranza della popolazione mondiale viveva all’interno delle città, mentre nel 1900 era solo il 13%. A ciò si lega l’emergere dell’Economia dei Servizi, che vede la città come luogo elettivo ed è oramai la componente più importante del PIL. Questo fenomeno sta cambiando il funzionamento del sistema economico, con impatti significativi anche di tipo architettonico-urbanistico.

L’applicazione intensa e diffusa delle nuove tecnologie – e cioè il fenomeno delle Smart Cities – è dunque necessaria, ma richiede un approccio corretto e sensibile al contesto italiano.

• Non deve essere una pallida imitazione dei modelli americani che partono da una visione distopica del vivere urbano (caos diffuso, insicurezza sociale, problemi di energia e inquinamento, …) e danno alle tecnologie digitali un potere quasi magico.

• Non deve neanche essere una semplice risposta ai bandi europei per racimolare le sempre più esigue risorse finanziarie pubbliche a disposizione per l’innovazione.

Ma deve piuttosto essere l’occasione per riflettere a fondo sul futuro delle nostre città, riunendo attorno a tavoli progettuali i principali attori (non solo decisori e fornitori) per cogliere a pieno le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, ma in piena armonia con la storia, le tradizioni e le vocazioni delle nostre città.

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È solo un trend legato agli ingenti investimenti (bandi etc.) o c’è la voglia di cambiare il modo di vivere?

E’ un trend che nasce dal mondo ICT prima ed energetico poi e si concentra su nuovi investimenti infrastrutturali – peraltro ad oggi non così ingenti – ma si sta saldando con il tema del vivere urbano e della complessità che annida dietro la pianificazione delle città.

Smart Cities ha ripreso e messo sotto un cappello (e una visione) unitaria temi e idee progettuali che sono molto più antiche. Pensiamo a tutto il capitolo dell’infrastrutturazione “larga banda” (da NGN fino alle ultime tecnologie mobili) – tema autenticamente urbano – oppure alle riflessioni sulle smart grid, che nascono dall’esplosione dell’autogenerazione energetica.

Nel tuo libro tu immagini un’altra via legata alla storia e alla tradizione italiana, di cosa si tratta?

Le città italiane sono diverse, non solo più piccole, come alcuni player ICT tendono a dire, parlando di “Smart Town”. L’aspetto forse più caratterizzante è infatti il loro cuore antico, il centro storico e il patrimonio culturale diffuso: più che un limite verso la loro modernizzazione, questa specificità è invece una straordinaria occasione per una forte caratterizzazione identitaria e può (anzi deve) diventare il laboratorio a cielo aperto dove sperimentare le tecnologie e le soluzioni più avanzate. Ma vi sono altri aspetti che costituiscono la cifra delle città italiane: essere organizzati attorno alle piazze, una forte dimensione turistica, una diffusione della cultura imprenditoriale artigiana e del commercio al dettaglio, una visione unica del welfare, una cultura dell’alimentazione che si declina anche in rapporto con la città.

Queste specificità comportano risposte differenziate: non solo efficienza energetica, dunque, né riduzione dell’inquinamento, controllo della sicurezza o mobilità sostenibile, ma anche valorizzazione dei centri storici, creazioni di strade del commercio e distretti artigiani, introduzione di nuove soluzioni di welfare, realizzazione di filiere corte alimentari. L’identità di una città va infatti tutelata e rafforzata e ciò è importante per molti motivi, ma soprattutto per il fatto che le città competono oramai fra di loro: per le risorse comunitarie, per i talenti, per i turisti.

In questo scenario qual è il ruolo della tecnologia?

Naturalmente essenziale, ma deve rimanere al suo posto. Troppo spesso la tecnologia da strumento si è trasformata in fine. Ritengo molto sbagliato questo approccio un po’ troppo deterministico e tecnologico alle Smart City che, partendo da un modello concepito negli Stati Uniti ed esteso alla grandi megalopoli orientali, non solo contempla un solo tipo di città, molto diverso dal nostro, ma ritiene che le nuove tecnologie siano la panacea di tutti i mali e oltretutto non costino nulla. È in questo approccio che si annidano i problemi. Anche la comunicazione fra fornitori e amministrazioni comunali, deve cambiare: da retorica pubblicitaria deve ritornare a essere dialogo e approfondimento, mettendo in luce non solo le magie della tecnologia, ma anche i suoi lati più problematici e rischiosi.

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Raccontami un tuo sogno, come vedi l’Italia tra 50 anni?

Le Smart Cities sottendono una visione utopistica della città e della società; non è però solo una visione di città ideale, di giusto governo, di impiego corretto delle tecnologie ma – cosa più delicata e problematica – una vera e propria concezione antropologica che descrive una realtà e un uomo, che si desidera venga controllata dalle macchine (da software di processo, agenti intelligenti, piattaforme di business intelligence) in quanto l’uomo senza tecnica rimane senza guida, strutturalmente disordinato, incapace e sostanzialmente egoista: una vera idolatria della tecnica. A ben guardare il futuro richiamato dalle riflessioni sulle Smart Cities è più distopico che utopistico. Infatti le Smart Cities vengono vendute non tanto per attuare una città ideale quanto come ricette necessarie per combattere un futuro apocalittico, fatto di carenze energetiche, traffico invivibile, inquinamento diffuso e problemi diffusi di sicurezza.

La mia visione è invece una città a misura d’uomo, e rispettosa dell’ambiente. Come disse Adriano Olivetti “Noi sogniamo una comunità libera, ove la dimora dell’ uomo non sia in conflitto né con la natura, né con la bellezza”; una città che non punti a diventare un hub nevralgico della competizione globale e accelerata, ma un luogo dove innovazione e tradizione, attività culturali ed economiche, imprenditoria for-profit e iniziative sociali devono convivere in maniera armonica; l’esigenza di una mobilità urbana efficiente e sostenibile si deve integrare in maniera naturale con grandi aree pedonali, il controllo dell’inquinamento e la conseguente chiusura al traffico automobilistico dei centri (storici) deve riproporre la validità della città a misura d’uomo – che ha visto la sua genesi e soprattutto il suo pieno sviluppo nell’area mediterranea – e l’agora e i “centri commerciali naturali” (e non le superstrade e lo shopping mall integrato con i parcheggi per le auto) devono ritornare a essere il centro naturale della città.

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Una città che – nelle parole dell’appena scomparso cardinal Martini – “è un patrimonio dell’umanità. Essa è stata creata e sussiste per tenere al riparo la pienezza di umanità da due pericoli contrari e dissolutivi: quello del nomadismo, cioè della desituazione che disperde l’uomo, togliendogli un centro di identità; e quello della chiusura nel clan che lo identifica, ma lo isterilisce dentro le pareti del noto. La città è invece luogo di una identità che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo, dal diverso”.

 

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Andrea Granelli è una figura eclettica, curioso dei saperi e appassionato di innovazione. Partendo da solide competenze tecnologiche ed economiche ama spaziare in diversi domini: la psicologia, il design, il patrimonio culturale. Pur essendo un visionario – talvolta addirittura sognatore – è una persona concreta e nella sua attività professionale ha realizzato molte cose: ha creato aziende di successo, scuole e corsi di formazione e da ultima – DNA Italia – un evento espositivo di nuova concezione sulle tecnologie per i beni culturali.

Nato nel 1960, dopo la maturità classica, si laurea con lode in informatica e completa gli studi con un diploma post-universitario in psichiatria. Dopo diversi anni presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche di Milano, dove si occupa di sviluppo di software di base e scientifico, e una breve parentesi al CESI come responsabile dell’automazione, entra nel gruppo Montedison dove, tra l’altro, diventa consigliere di AITEC – joint venture fra Montedison e Stone & Webster. Nel 1989 entra in McKinsey & Company e, nel 1993, si trasferisce un anno presso l’ufficio di Lisbona. Nel 1995 entra in Video On Line – come “braccio destro” del fondatore Nicola Grauso – e poi in Telecom Italia dove fa nascere tin.it – il più grande operatore Internet italiano – rimanendo per diversi anni amministratore delegato. Negli anni successivi diventa responsabile delle attività di venture capital del Gruppo Telecom e amministratore delegato TILab, l’azienda che gestisce le attività di R&D del Gruppo Telecom, con oltre 1.200 risorse qualificate, coinvolta in tutte le aree strategiche del gruppo, come Internet, telefonia mobile, larga banda e TV interattiva.

Attualmente è presidente e fondatore di Kanso, società di consulenza che si occupa di innovazione.