Paolo Crepet. A che gioco giochiamo?

La tecnologia
dell’intrattenimento crea isolamento nelle nuove generazioni? Il gioco
è ancora libera invenzione (play) e può renderci felici (playful)?
Oppure le regole del gioco (game) ci costringono a giocare per forza e il gioco
è finito per sempre (game over)?

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di Giuseppe
Mariggiò

C’è
differenza tra il giovane eroe proustiano completamente immerso nell’universo
letterario della Recherche e il suo equivalente contemporaneo che interagisce
nella dimensione virtuale – da un capo all’altro del Pianeta – con altri
coetanei e grazie a una connessione wireless? Ovvero è più comprensibile
perdersi nelle pagine di un romanzo o nei livelli di un videogioco elettronico?

Tra righe di inchiostro e stringhe di software l’orizzonte artificiale
resta lo stesso? Oppure, anche l’immaginazione diventa una sorta di equipaggiamento
accessibile a pagamento?
Nei fatti, si può imparare a salvare il mondo con armi nucleari giocando
alla guerra come a navigare nei mari del Sud leggendo di tesori e di pirati.

Ma se il gioco è una modalità di apprendimento, si può
arrivare al punto di illudersi che si possano affrontare situazioni difficili
attraverso una sequenza di tasti?
Nel mondo dell’industria dell’intrattenimento elettronico, ogni
click in ogni gioco può essere tradotto in informazioni sull’utente
ed essere memorizzato in una banca dati.
In Rete, i blog hanno preso il posto dei diari, come dire che il bisogno narcisistico
di comunicare la propria esistenza ha preso il posto del bisogno di intimità
e del diritto di cancellare le tracce che abbiamo seminato.
L’accesso più comune al gioco per i giovani di questo Millennio
– e forse anche per il prossimo – è il computer con tutte le variazioni
di “scatole” e “scatolette” che si lasciano sul comodino
– la sera – e si rimettono – il mattino dopo – nello zaino per andare a scuola.

Io – da bambino – giocavo a Campana: dieci caselle numerate e un pezzo di coccio.
Mio nipote non sa neppure cosa si sia.
Benessere, moltiplicazione dei mezzi di comunicazione, vulnerabilità
e isolamento rappresentano il paradosso delle giovani generazioni.
Gli esperti ci spiegano che lo spazio libero da regole e programmi è
lo spazio del gioco, dell’invenzione e – se si vuole – per cercare se
stessi.
Secondo Ermanno Bencivenga (“Giocare per forza”, Bruno Mondadori)
questo spazio è sempre più colonizzato dall’industria dell’intrattenimento
che trasforma bambini e adulti in forzati del gioco.
Invece per Paolo Crepet (www.paolocrepet.it)
bisogna difendere i giovani più dagli insegnanti incapaci che dai giochi
elettronici, tanto che il noto psichiatra ha prestato la sua consulenza a Ubisoft
per la realizzazione dell’ultimo titolo (“Amiche & Segreti”)
della serie “Giulia Passione” per Nintendo DS (www.giuliapassione.it.ubi.com).

Nato a Torino il 17 settembre 1951, Paolo Crepet vive in cima
a un palazzo nel centro di Roma vista Pantheon. Allievo di Basaglia, ha contribuito
a scrivere la 180 che chiuse i manicomi. Psichiatra di riferimento dell’OMS
in Italia, ha tenuto conferenze ad Harward, Rio, Delhi, scrive sul British Journal
of Psichiatry e ha pubblicato molti libri di successo. Intellettuali e colleghi
lo criticano. Non di rado, l’invidia è cattivo giudice…

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Data Manager:
Come psichiatra ha sempre sperimentato nuovi modi di comunicare. I suoi libri
rappresentano lo sforzo di divulgare i risultati della sua attività professionale
a contatto con i disagi giovanili. Perché ha deciso di collaborare alla
realizzazione di un videogioco?

Paolo Crepet: Perché sono una persona curiosa e perché
mi piace entrare in contatto con realtà che non conosco. Partecipare
al progetto è stato un modo per comprendere dall’interno un mondo
che non è necessariamente l’industria del male. Credo che un videogioco
possa aiutarci a comprendere meglio l’universo delle giovani generazioni
e essere addirittura un prodotto con una valenza pedagogica che può contribuire
a far uscire i giovani dal loro “loculo mediatico”.

Qual è
il suo rapporto con la tecnologia?

Non sono di quelli che scrivono con la Lettera 22 Olivetti. Fin da subito sono
stato con i Beatles e i Mac. Non solo. Sono stato tra i primi a utilizzare la
Rete per scopi terapeutici. La levata di scudi da parte della categoria è
stata enorme, ma ritengo – entro certi limiti e non in tutti casi – che si possa
fare psicoterapia utilizzando Internet. Penso a tutte quelle persone che non
si possono spostare, a persone che vivono lontane o con capacità economiche
molto limitate.

Continua
la lettura dell’intervista nella sezione Fuori Pagina di DMO