Concettuale, cinetica, ecologica, cibernetica, multimediale, programmata, nucleare, multipla, seriale, transgenica, post-organica: così è l’arte contemporanea che sperimenta un nuovo rapporto con la realtà e i suoi limiti attraverso i mezzi tecnologici a disposizione Il dibattito sulla “cittadinanza” dei nuovi strumenti in ambito artistico si riaccende periodicamente alla comparsa di ogni nuova tecnologia (basti pensare alla fotografia e al cinema con il passaggio al digitale). Il Web sta mutando anche il modo di fruire e studiare l’opera d’arte. Non solo. Grazie alla virtualizzazione c’è una nuova generazione di opere virtuali e artisti sintetici. La Computer Art era già avanguardia nel 1968 con la mostra di Jasia Reichardt all’ICA di Londra. Un anno dopo, tre matematici, Frieder Nake, A. Michael Noll e George Nees organizzarono la prima esposizione di arte generata con il computer al Technische Hochschule di Stuttgart. Noll spiegò: «Fare riprodurre dipinti famosi è tra i metodi con cui si insegna l’arte agli studenti nelle accademie. Non c’è nessuna ragione per cui il computer non possa imparare dalla stessa idea».In Italia, è la Olivetti di Adriano a patrocinare le opere di Bruno Munari basate sulla programmazione della loro struttura. E nel 1970 alla mostra “Software” (organizzata da Jack Burnham) i visitatori furono invitati a fare qualcosa di estremamente strano: far funzionare dei computer. L’idea della relazione tra arte e calcolo matematico era – però – già patrimonio degli artisti rinascimentali, Leonardo in testa. E questo dimostra come il legame tra arte e tecnologia è sempre stato difficile da interpretare. Dall’avvento delle tecnologie telematiche – inoltre – i confini tra soggetto e oggetto, mente e materia, arte e scienza si sono fatti sempre più sottili. Anche se ha il suono di uno slogan: il virtuale sta diventando reale. Tramite i sistemi di storage, di comunicazione stiamo riscrivendo e ricostruendo il mondo come un “dataspace” dove non c’è realtà – anche artistica – senza partecipazione e distribuzione dell’informazione. C’è da chiedersi allora: «Nell’era della comunicazione globale, dall’estetica artistica si passa all’estetica dell’informazione? E c’è un modo positivo di concepire la relazione tra i cosiddetti new-media e l’arte?» Abbiamo girato la domanda a Gillo Dorfles che definire critico d’arte – nel suo caso – è quantomeno riduttivo. Triestino di nascita, classe 1910, Gillo Dorfles è una figura davvero unica nel panorama della cultura internazionale. Con la sua attività di teorico dell’arte (ma anche di pittore non più clandestino) e il contributo di idee e concetti – entrati ormai nel vocabolario comune – ha definito la sensibilità estetica del nostro tempo. Libero docente e poi ordinario di Estetica a Milano, Trieste e Cagliari, a partire dagli anni Trenta ha svolto un’intensa attività di critico d’arte e saggista. Per elencare i premi, i riconoscimenti e gli incarichi in Italia e in giro per il mondo ci vorrebbe un volume a parte. Oggi, Gillo Dorfles si guarda intorno, e quello che vede non gli piace, ma non si stanca di dare lezioni anche a chi fa finta di non sentire. Chiacchierare nel salotto della sua casa milanese – con il pianoforte che occupa un posto d’onore, circondati da libri, quadri e oggetti che hanno fatto la storia dell’arte e del design italiano – è un’esperienza che lascia il segno. Gillo Dorfles è un uomo che ha saputo concentrare molte vite in una sola. Laureato in medicina, specializzato in psichiatria, virtuoso della musica, amante della filosofia, campione di spada. Fin da ragazzino si chiedeva: «Ma perché non è possibile guadagnare dei soldi dando dei consigli di gusto»? Uomo dalle tante sfaccettature e cautele. L’abilità di schermitore gli concede di non cadere nelle provocazioni. Nella conversazione non permette a nessuno di spingersi oltre e non risponde alle domande che giudica noiose. Dichiara di non avere avuto maestri. Molti artisti devono però a lui la loro fortuna. Data Manager: “Apocalittico” o “integrato”?
Gillo Dorfles: Credo di essere a metà strada tra chi cerca l’eccezionale e chi si accontenta della generalizzazione. Non mi piacerebbe essere definito né in un modo, né in un altro. Bisogna cercare di essere al corrente di ciò che accade. Almeno nel proprio campo, aggiornarsi è fondamentale. Questo non significa però dimenticare la lezione del passato. Qual è lo stato attuale dell’arte e dei nuovi media?
L’arte contemporanea è sempre più legata al concetto di performance che introduce nuove variazioni intorno al principio “artefatto” di bello e di buono.

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Nel 1992 in occasione della diciottesima Triennale milanese – insieme a Gianfranco Bettetini e a Ugo La Pietra – organizzammo un’importante sezione dedicata ai new-media e alla realtà virtuale. Non avrei mai pensato che molte delle operazioni, presentate allora come meraviglie tecnologiche o abili “trucchi” elettronici, sarebbero presto diventate delle “realtà” tutt’altro che virtuali. Quale è il limite tra l’uso positivo e negativo dell’elettronica in alcune forme artistiche?
La creazione artistica, anche quella tecnologicamente più avanzata, richiede materiali e sentimenti veri. Grazie ai new-media anche l’arte può avere una diffusione globale e questo fa bene al mercato. Dobbiamo però mantenere “libero” almeno un quoziente delle nostre sensorialità se vogliamo continuare a “vedere con i nostri occhi”. Ci può fare qualche esempio?
Trovo accettabili i volti umani stravolti rispetto alla loro identità biologica di Aziz e Cucher anche se ottenuti con sofisticati “trucchi” al computer. Trovo negativa la tendenza di potenziare, surrogare o uscire dal limite fisico del corpo attraverso tecnologie meccaniche, chimiche o elettroniche. Come Stelarc quando permette al pubblico – attraverso un’interfaccia elettronica – di manovrare i suoi arti, sospendendo ogni volontà.

Quale evoluzione prevede per il futuro?
La storia ci insegna che a ogni azione corrisponde una reazione. E’ probabile che proprio questa enfasi sul virtuale finisca per produrre un naturale ritorno al tangibile. Spero solo che dalla scheggia di silicio non si ritorni alla manciata d’argilla. L’arte e l’artista sono figli del loro tempo. Anche Raffaello o Mozart nell’era di Internet avrebbero prodotto un’arte differente da quella che conosciamo…
E’ vero. In passato, il fattore talento – insieme alla tecnica che si imparava – era uno dei requisiti essenziali di ogni produzione artistica. Tale requisito va sempre più obliterandosi in conseguenza del modo in cui l’arte stessa è prodotta. Le faccio un altro esempio. In passato frequentavo – con Berio, Eco, Stockhausen – il laboratorio acustico della Rai di Milano. Alcuni esperimenti di musica elettronica erano di straordinaria efficacia, altri noiosi e ripetitivi. Questo significa che se manca la concezione dell’opera non basta una stanza di computer per mettere insieme suoni che siano in grado di emozionare.
Dall’altro canto, il famoso Museo Guggenheim di Frank O. Gehry a Bilbao – a detta dello stesso architetto – non sarebbe stato progettabile se alla prima fase di ideazione, non fosse seguita quella di ingegnerizzazione degli elementi strutturali per mezzo del computer.

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Lei è nato a Trieste ma è legato molto a Milano. Che cosa pensa della città?
Tre quarti delle cose che vedo in giro non mi piacciono, cerco di concentrarmi su quel quarto che resta. Milano è una città metropolitana e ha bisogno di un piano urbanistico frutto di una grande concezione architettonica in grado di ridisegnare lo skyline. Non ci servono i palazzinari. Ma attenzione Milano non è Shanghai.

C’è spazio per l’arte a Milano?
Milano ha fatto un cammino alla rovescia negli ultimi 20 anni. Raccolte pubbliche e private aspettano di uscire dai magazzini, ma la città non ha un museo d’arte contemporanea per accoglierle, mentre c’è a Roma, a Torino e Napoli. Anche Rovereto con il Mart progettato da Botta è più avanti di Milano.

Di chi è la colpa?
Cattiva amministrazione da dieci anni a questa parte. Mancanza di spirito imprenditoriale e coraggio da parte di chi ha soldi. Il museo rende come immagine per la città e rende per gli introiti diretti e indiretti. Sono convinto che dieci tra i più ricchi signori di Milano sarebbero in grado di mettere su un museo senza neppure accorgersene. Milano rivendica un ruolo che ha perso da tempo. La morale è scomparsa. La cultura è ignorata. L’economia è legata alla pratica di chi fa soldi dai soldi.

L’Expo 2015 può essere un’occasione di rilancio?
Me lo auguro per Milano e spero che il Sindaco Moratti non si lasci sfuggire questa occasione.
Lei non è mai stato legato a nessun carro né politico, né culturale, però il suo giudizio poteva decidere il futuro di un artista…
Ho esercitato questo potere con molta umiltà e sempre nel rispetto del lavoro degli artisti. La lezione più importante?
Nei limiti del possibile, cerco di dimenticare.