Anche i ricchi piangono

Le realtà considerate inviolabili stanno provando il brivido di trovarsi sotto scacco. Un “inverno” troppo rigido anche per chi pensava di non temere intemperie virtuali dovrebbe indurre a qualche riflessione…

 

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Umberto Rapetto - securityMicrosoft, Facebook, Twitter, Apple. New York Times, Wall Street Journal. L’elenco è molto più lungo e altrettanto spaventoso. Le roccaforti considerate inespugnabili hanno dovuto ammettere di aver avuto seri problemi di sicurezza informatica. Incursioni hacker e contaminazioni virali hanno minato la funzionalità di sistemi erroneamente ritenuti sacri e inaccessibili alle schiere di malintenzionati che affollano l’universo online. Quelli che hanno sempre pensato alla sicurezza come un’inutile spesa sono costretti a fare i conti con una situazione magmatica in cui determinate certezze sono diametralmente capovolte. Finire sotto attacco di pirati informatici – poco importa animati da cosa o arruolati da chi – è diventato un rischio a elevatissima probabilità di accadimento. E non è una minaccia nuova, perché di queste insidie se ne parla (non solo su queste pagine) da anni e anni. Purtroppo tutti – o comunque la stragrande maggioranza di chi adesso trema o se ancora non se n’è accorto dovrebbe tremare – non hanno attribuito al problema né l’importanza, né la priorità che invece meritava. Adesso si scorrono i fogli del giornale o le pagine del web e con sguardo incredulo ci si domanda come certi incidenti possano aver avuto luogo.

Fortunatamente, non ci troviamo nella trama del capolavoro del Collodi, perché dispiacerebbe – a chi tanto ha predicato di porre un po’ più di attenzione – di trovarsi spiaccicato sulla parete come il grillo parlante. Ora che i templi digitali sono stati profanati, qualcuno rispolvera la questione. E nessuno vuole ammettere la sostanziale inettitudine che ha caratterizzato il contesto nazionale. Facciamo un esempio. Il 23 gennaio 2013 il Governo ha firmato il decreto volto a definire “un’architettura di sicurezza cibernetica nazionale”. Tutti – senza leggerne il testo – hanno plaudito al buon esito dell’iniziativa normativa. Chi ha letto il testo di legge con un minimo di competenza ha storto il naso. Chi sperava di poterlo fare (leggere le disposizioni, non storcere il naso) sta aspettando la pubblicazione del DPCM in Gazzetta Ufficiale: un mese dopo, non era ancora avvenuta. Un mese. In uno scenario in cui due ore sono un’eternità, in un mese non si è riusciti a metter nero su bianco. E non voglio immaginare l’era geologica che ci divide dal mettere in pratica quel che servirebbe. Un Paese di chiacchieroni. Forse anche di incapaci. A dispetto di quel che c’è scritto sul Palazzo della Civiltà, a dispetto soprattutto delle intelligenze che popolano l’Italia e che non vengono prese in considerazione perché non allineate, non tesserate, non ubbidienti.

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Chi ritiene che il DPCM in argomento sia foriero di investimenti significativi – di conseguente efficace protezione, di concatenato business per chi può offrire prodotti e servizi indispensabili per ottenere un certo risultato – è bene che vada a leggersi il primo comma dell’articolo 13. “Dal presente decreto non derivano nuovi oneri per il bilancio dello Stato”. Tutto – quindi – avverrà per miracolo? Oppure, non ci sarà bisogno di nulla perché è già tutto pronto, collaudato, efficiente ed efficace? Sono contento di non dover essere io a dare questo genere di risposte. Al tempo stesso, mi auguro che non capiti nulla perché ho la terribile sensazione che – in caso di incidente – sarà tardi per cercare quelli bravi e chiedere: «Salvaci tu» – come si sentiva in un vecchio Carosello. Proprio in quello spot di una nota casa dolciaria, l’altra frase ricorrente – accompagnata da un gesto a indicar la fronte – era: «E che c’ho scritto Jo Condor»?