Don Tapscott «Wiki-Revolution»


L’economia della collaborazione e le “macro-conseguenze” sugli equilibri del mondo

Tucidide osservò che “le nazioni più grandi fanno ciò che desiderano, mentre le nazioni piccole accettano ciò cui sono costrette”. Il mondo è cambiato un bel po’ nel corso dei secoli, ma alcune cose restano immutate. Se la ragion di stato è obsoleta, la guerra deve trovare nuove giustificazioni e nuovi strumenti di propaganda. Lo aveva intuito, dopo il Congresso di Vienna, il principe Metternich, ministro degli Esteri austriaco, che sosteneva – infatti – l’esistenza di uno stretto legame tra ordine politico e sociale interno ai singoli stati e stabilità internazionale. Oggi, quel principio si chiama “peacekeeping” o “ingerenza umanitaria” ed è alla base della politica internazionale. Dopo il Kosovo e l’Iraq, la Libia ripropone una questione che da sempre è della massima delicatezza morale e politica.

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Mentre l’Onu concerta le sanzioni economiche contro il colonnello Muhammar Gheddafi (che governa il Paese dal 1969), la Casa Bianca non esclude azioni militari, e Mosca si dichiara contraria a ogni intervento. La Russia di Putin non è così diversa da quella della Santa Alleanza dello Zar Alessandro I, che proponeva una sorta di governo del mondo, ma la sua posizione è comprensibile: non si parla di corde in casa dell’impiccato. Stupisce, invece, la posizione interventista del presidente Barack Obama, che sull’errore di invadere l’Iraq (costato al bilancio americano tremila miliardi di dollari) ha costruito il suo consenso elettorale.

Prima la Tunisia e l’Algeria. Poi l’Egitto e, sulla scia, lo Yemen, la Giordania, la Siria. Al centro dei fatti che stanno infuocando il Mediterraneo c’è la domanda di democrazia che proviene dal basso e che dilaga orizzontalmente, grazie alla Rete. Per qualcuno, si tratta di una sorta di rinascimento arabo con molti punti di contatto con il Risorgimento italiano. È proprio così? Nell’Ottocento, la circolazione dei giornali e l’abolizione dell’istituto della censura preventiva consentirono la formazione di un’opinione pubblica borghese, che rivendicava un ruolo politico e utilizzava la massa analfabeta per il suo scopo. Allo stesso modo – oggi – possiamo affermare che una folla che sa rimbalzare messaggi sui social media, sia lo strumento di un nuovo equilibrio di forze in questa parte del mondo? Il World Wide Web, l’opinione pubblica (che conta) e l’opinione di massa (che è contata) possono diventare strumenti di politica internazionale e funzionare meglio della diplomazia delle cannoniere? In altre parole, è il vecchio sistema che sperimenta “il nuovo” o è “il nuovo” che avanza inesorabilmente?

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Don Tapscott, celebre autore di “Wikinomics” e chairman di Moxie Insight (moxieinsight.com/about), dalle pagine del suo blog dichiara che Tunisia ed Egitto sarebbero l’esempio originale di un nuovo tipo di rivoluzione basata sui social media. Ma in che senso? Forse, si tratterebbe di una specie di “wiki-revolution” che non avrebbe la testa in una leadership politica e il corpo nel consenso popolare, ma sperimenterebbe la sincronia tra volontà e azione? Come dire: un esperimento di democrazia-flashmob con effetti reali sugli equilibri internazionali?

Nel suo ultimo libro “Macrowikinomics” (in Italia, pubblicato da Etas), Don Tapscott (www.dontapscott.com/about) mette l’accento proprio sulle conseguenze dell’economia della collaborazione, non più solo a livello della singola azienda, ma a livello “macro” sul mondo e i suoi equilibri di potere.

Quando, in autunno, abbiamo incontrato Don Tapscott in occasione del World Business Forum 2010, organizzato a Milano da HSM, avevamo avuto un’impressione netta: il cambiamento non era nella fine di un ciclo economico, ma nella fine di un modo di concepire il mondo e il business. Don Tapscott non ha dubbi in proposito: «La collaborazione di massa potrebbe non solo salvare il Pianeta, ma mandare in soffitta i vecchi modelli». Dopo i fatti di Tobruk e il prezzo del petrolio che torna a salire insieme all’inflazione, è lecito chiedersi: Cosa impedisce ai leader del vecchio sistema di imparare a “collaborare” e di cavalcare l’onda del cambiamento perché nulla cambi?

Data Manager: Qualcuno dei suoi detrattori ha criticato l’eccesso di enfasi con cui lei ha celebrato il concetto di “collaborazione di massa”. Perché?

Don Tapscott: Perché molti credono che solo piccoli gruppi organizzati di professionisti di talento possono sviluppare innovazioni rivoluzionarie. Si tratta di una visione aristocratica che non condivido. Linux è uno dei sistemi operativi più diffusi al mondo ed è stato sviluppato dalla comunità software più grande del mondo grazie a un sistema comunicativo molti-a-molti, globale e alla portata di tutti.

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C’è differenza tra “collaborazione di massa” e azione collettiva?

Il concetto di collaborazione appartiene all’esperienza comune degli uomini. Il concetto di collaborazione cui faccio riferimento si basa sulla condivisione consapevole di conoscenza, sull’assunzione personale di responsabilità e coincide perfettamente con la somma delle scelte dei singoli. Tradizionalmente, le masse agiscono sull’onda emotiva e non sono dotate di un’intelligenza razionale.

Collaborazione o collettivismo?

Il collettivismo implica il controllo. La collaborazione di massa si basa invece sulla libera scelta e il coordinamento distribuito che non soffoca l’individuo. Tutti i giorni collaboriamo, ma la nuova promessa della collaborazione è figlia dell’evoluzione tecnologica. La peer production consente di sfruttare al meglio la competenza, la creatività, l’intelligenza di milioni di persone. E qui si trova la radice di un altro fattore rivoluzionario di cambiamento: se non hai talento o competenze per partecipare, sei fuori del gioco della collaborazione.

Il Web e la conoscenza distribuita sfidano il monopolio del potere?

La collaborazione paritaria di massa unisce i giovani di ogni parte del mondo che possono collaborare e competere sulla scena globale. I giovani nativi digitali stanno mettendo in discussione istituzioni come l’università, la stampa e l’intero sistema di delega del potere. Nell’economia della collaborazione, le persone sono al centro. La collaborazione di massa non è soltanto un fattore di successo per il business, ma trasforma il nostro modo di pensare, di creare, di educare e di informarsi.

Nell’economia aperta della collaborazione la distinzione tra conoscenza e informazione, tra opinione e fatto diventerà sempre più sottile?

La confusione tra opinione e fatti è caratteristica di un sistema che non distingue tra la pubblica opinione e audience, ed è tipico dell’attuale società dei consumi divisa in target. Sviluppare massa critica, con lo studio e lo sviluppo di competenze è, invece, una delle sfide principali delle community. Le fonti di informazione si moltiplicheranno in modo esponenziale e la trasparenza sarà l’unico vantaggio competitivo.

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Quale futuro ci aspetta?

Prevedere che cosa succederà non serve a nulla. Il futuro non si prevede, si realizza. Il problema che abbiamo di fronte non è ciclico, ma epocale. Siamo di fronte a un cambiamento di paradigma. Quando un paradigma cambia si crea discontinuità. La discontinuità crea incertezza e paura.

Allora ci attende un futuro di incertezza e paura crescente?

Più che uscire da un ciclo di recessione, ci troviamo di fronte a un’era completamente nuova caratterizzata da alti livelli di complessità e di rischio. Con l’ascesa dei social media, saremo inoltre sempre più complici e disposti a compromettere la nostra privacy, in cambio di sicurezza.

La stabilità è morta e sepolta?

Bisogna vivere con la precarietà dei mezzi, dei luoghi e dei ruoli. Adattarsi al cambiamento è l’unico modo per sopravvivere. L’idea di creare un prodotto per poi difenderlo dalla concorrenza è obsoleta. La proprietà intellettuale non si difende con le barricate, ma con la condivisione.

Come si sviluppa la leadership?

Mettendosi al servizio delle persone, incoraggiando gli individui ad auto-organizzarsi, dando spazio alle avanguardie innovative e incentivando i giovani e la meritocrazia. La storia insegna che i cambiamenti profondi sono sempre a vantaggio dei nuovi arrivati e solo in rari casi di chi riesce a cambiare visione.

La crisi è finita?

Le vecchie curve non spiegano più il mondo, non perché la crisi sia finita, ma perché il mondo è cambiato.