Dopo le “clavatte” a 10 “lile” arrivano i “clavattali”

Security Umberto Rapetto

Quando ero piccino, ricordo i primi cinesi che vendevano dozzinali cravatte a prezzi incredibilmente bassi. Da una quindicina d’anni so bene che i “cravattari” della Repubblica Popolare non sono proprio i concorrenti di Marinella & C

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Probabilmente l’espressione “cravattaro” è troppo romana per chi vive lontano dalla città eterna e me ne scuso. Un quarto di secolo nella capitale ha “inquinato” il mio lessico già “arricchito” dal ginnasio ad Alassio e dal liceo sui banchi della Nunziatella a Napoli.

Così, se il vostro correttore automatico mentale sottolinea in rosso il termine in questione, provate a immaginare di poter fare click su “aggiungi al dizionario” e tenete conto che l’espressione si riferisce a usurai ed estorsori, i cui metodi – come le cravatte – sono in grado di strangolare chi vi incappa.

Il racket cui facciamo riferimento è “cugino” di quello tradizionale e il suo contesto trova radice nella Rete e nelle mille possibilità di delinquere senza i limiti geografici del classico quartiere sotto il ferreo controllo del boss di turno. Basta poco per ricattare chi ha un sito web, per minacciare l’interruzione dei servizi online, per pretendere il pizzo e chi non è “protetto” corre brutti rischi…

Tutto il moderno delinquere si basa sul proficuo impiego dei più moderni strumenti tecnologici per perseguire obiettivi illeciti di qualunque natura.

La Cina, ancor più della piattaforma balcanica e delle aree sudamericane, è guardata da tempo come l’isola della Tortuga, il porto sicuro in cui i vascelli pirata possono trovare rifugio e da dove possono sferrare attacchi micidiali.

All’inizio di ottobre la polizia della Repubblica Popolare ha comunicato di aver smascherato nei primi nove mesi dell’anno oltre 700 bande cyber criminali, di aver arrestato all’incirca 9mila pericolosi delinquenti con abilità informatiche davvero non comuni, di aver risolto più di 4mila e 400 “casi”. Le cifre non sono poi così impressionanti se paragonate al volume della popolazione, ma assumono comunque rilievo se si considera che le “energie negative” sono indirizzate su obiettivi dislocati oltre la Grande Muraglia. Gli hacker cinesi, infatti, prendono di mira i sistemi informatici occidentali e mostrano una certa predilezione per quelli statunitensi: l’aggressività criminale viene sfogata fuori dai confini e con azioni che certo non dispiacciono alle autorità governative di Pechino che ne riconoscono una certa valenza politico-militare. I novemila pirati appena acciuffati potrebbero finire ai lavori forzati, in una sorta di impiego “socialmente utile” e magari costretti a mettere a disposizione dello Stato le loro capacità.

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Da anni, la Cina ha sferrato una evidente competizione industriale e commerciale i cui risultati non hanno tardato a manifestare la loro ricaduta sull’economia dei Paesi concorrenti, ma soprattutto ha scatenato una invisibile guerra informatica a giro d’orizzonte. Un conflitto non rumoroso, privo di ingredienti tipici come esplosioni, proiettili e sangue, ma incredibilmente efficace. Gli attacchi non somigliano certo ai tradizionali raid aerei oppure alle storiche invasioni del territorio avversario: sono precise mosse che vanno a interessare il sistema nervoso digitale del “nemico”, falcidiando le funzionalità affidate a computer, software e reti da cui dipende il regolare esercizio delle non mai abbastanza considerate infrastrutture critiche.

L’invasione è già avvenuta e pochi se ne sono resi conto. Virus e hacker a parte, non mancano gli argomenti per riflettere. L’elettronica di consumo non manca di componentistica sviluppata nella Repubblica Popolare e l’economicità di un microprocessore potrebbe lasciare il dubbio che quel chip troppo cheap sia stato congegnato per “fare il suo dovere” al verificarsi di particolari condizioni. Che succede se a una certa ora di un determinato giorno i microchip di uno specifico tipo dovessero fermarsi tutti contemporaneamente?