L’erba del vicino è più verde

Non dovrei leggere i giornali. Soprattutto dovrei smetterla di tenermi informato servendomi della stampa estera. Non credo sia diseducativo, affatto, ma certo non fa bene allo spirito e ancor meno alla salute

 

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Umberto Rapetto - securityPoche ore prima che Loris Bellè e la sua indomita redazione sollecitassero il mio editoriale in “tradizionale” ritardo, stavo scorrendo le pagine di alcuni quotidiani e magazine stranieri. Lo facevo così, un po’ per sentirmi un cittadino del Terzo Mondo, un po’ per innescare un travaso di bile che – fino a quel momento – mi era mancato.

Se non ho finito il mio saltellare da una pubblicazione all’altra e se il mio fegato non è esploso, lo devo ai miei amici di via Leon Battista Alberti e al roboante tamburellare dei tipografi fermi per colpa mia dinanzi alle rotative.

L’ultima “brutta notizia” era britannica e riguardava il mondo universitario d’oltre Manica. Oxford e Royal Holloway sono gli Atenei che “sprecheranno” 7 milioni e mezzo di sterline (poco meno di 10 milioni dei nostri euro) per formare 22 PhD in cyber security. Mentre dalle nostre parti, molti esperti si sono autoincoronati tali, tra i sudditi di Sua Maestà, la Regina, c’è chi avrà la fortuna (ma anche l’onere) di conseguire un vero dottorato finanziato dall’Engineering and Physical Sciences Research Council e dal dipartimento competente in materia di “Business, Innovation and Skills”.

Ho subito pensato quanto siamo bravi noi in Italia, che di certe cose non abbiamo bisogno.

Tanto per cominciare, non ci serve nulla del genere perché un attacco informatico difficilmente ci può impensierire. Il livello di automazione – specie quello della macchina pubblica – è talmente desolante da costituire una barriera tecnica e psicologica insormontabile. Un hacker non riuscirebbe a mettere KO sistemi che da tempo giacciono al tappeto (e qui la difficoltà tecnologica) e al tempo stesso si troverebbe disorientato (ecco l’handicap “personale”) provando sentimenti di “pietas” cristiana dinanzi a un simile bersaglio e poi – ritenuta impossibile una simile condizione – immaginando che dietro la maschera di inefficienza potrebbe celarsi un avversario temibilissimo.

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In secondo luogo, dobbiamo ritenerci fortunati per la mancata adozione nostrana di una simile iniziativa, perché l’avvio della selezione dei possibili candidati avrebbe scatenato una vera e propria reazione a catena. Ancor prima della pubblicazione del bando di concorso (costellato, quest’ultimo, di estenuanti modifiche “sartoriali” dei requisiti per garantire la perfetta “vestibilità” a vantaggio di alcuni aspiranti privilegiati), si sarebbe assistito alla multipartisan composizione della Commissione con duelli all’ultimo sangue tra incredibili concorrenti autoreferenziati. Poi, si sarebbero dovuti garantire una efficiente gestione di raccomandazioni e segnalazioni, un combattimento alla baionetta per correggere fraudolentemente le graduatorie, una birichina procedura di interferenza nei giudizi e nelle valutazioni di esami e prove…

E’ in queste circostanze che ci si accorge della nostra italica superiorità.

Nel frattempo stormi di pirati informatici con gli occhi a mandorla oscurano il cielo degli Stati Uniti, pronti a ghermire segreti e informazioni riservate, capaci di compromettere il futuro politico, economico, industriale e commerciale non soltanto americano.

Ma da noi non può capitare. E probabilmente ha ragione chi la pensa così. Forse, perché i migliori cervelli hanno lasciato il Paese e quindi qui c’è poco da rubare.

Nonostante tutto non mi arrendo e continuo a provare invidia per quelli che ancora sono convinti che la Scuola – quella con la “S” maiuscola – sia la base del domani e i soldi spesi in tale direzione costituiscano un incredibile investimento.

Chiudo i giornali che ho sulla scrivania e mi accorgo che l’ultimo incredibile investimento italiano è quello al Porto di Genova. Prego per chi non c’è più. E prego per quelli che sono rimasti.