Paolo Mieli Punto a capo


La sfida della crisi, il coraggio di cambiare

«Qual è la ricetta della crescita?»

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Nei Paesi di lingua inglese, con una tradizione di democrazia più antica della nostra, l’attenzione si paga (“pay attention”). In Italia l’attenzione, invece, si presta, forse perché gli italiani, fondatori degli istituti di credito, prestano attenzione in rapporto all’interesse. Sarebbe bello invece se si prestasse attenzione al rumore di fondo che avanza. È il rumore del malcontento acuito dalla crisi. È il rumore delle imprese che vedono le curve dei ricavi in caduta libera. È il rumore di un meccanismo che si è inceppato e non riesce a riavviarsi. Il sistema si è rotto? I due nobel dell’economia – Sims e Sargent – ammettono di non avere risposte. Certo, la sincerità vale già il premio, ma a che cosa servono allora i modelli e le analisi matematiche che consentono di capire solo a posteriori, se un certo intervento ha avuto gli effetti desiderati? Per l’economia – forse – vale la stessa regola del tempo: per vedere se pioverà basta aspettare, e per ogni eventualità, meglio portarsi l’ombrello. Le cifre di Assinform e di Assintel, sull’andamento dell’IT e TLC, hanno già fatto il giro della Rete una decina di volte e sono state citate in apertura di tutti gli articoli della stampa specializzata. Ma che cosa significano veramente? Per Giorgio Rapari, presidente di Assintel, «siamo alla resa dei conti». Per Paolo Angelucci, presidente di Assinform, «è in corso un cambiamento profondo». Non si cresce perché non si investe, e non si investe perché non si cresce: il solito nodo avviluppato impossibile da districare. Al tempo della crisi del ‘92 e della manovra del governo Amato da 96mila miliardi di lire (48 miliardi di euro), circolavano gli stessi slogan: «Rimboccarsi le maniche»; «la crisi è un’occasione per colmare il gap di competitività del Paese»; «bisogna tenere il passo dell’innovazione». È vero: la crisi è alla base dello sgretolamento del sistema e degli andamenti in chiaroscuro del mercato. Siamo certi – però – che l’industria dell’ICT e delle TLC non abbiano niente da farsi perdonare? Il dogma del Pil domina in modo assoluto sui media, in politica, nell’opinione pubblica. L’equazione, sviluppo uguale crescita, è vera in entrambi i versi? Il 22 luglio cominciava l’attacco della speculazione. Il primo venerdì nero di un’estate sotto assedio, che ha eclissato anche il centenario della nascita di Marshal Mc Luahn. Mentre crollavano tutti i titoli del Ftse Mib, solo Fondiaria Sai (controllata dalla famiglia Ligresti) realizzava +1,64%. Solo un caso, per carità, ma sufficiente per farsi un’idea sulla irrazionalità dei mercati. Per Paolo Mieli, presidente di RCS Libri, esperto di politica e storia, «tutti sono bravi a dichiarare che non basta fare i tagli, ma che bisogna occuparsi anche della crescita». Ma la domanda finale è una sola: «Qual è la ricetta della crescita»?

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Data Manager: L’avvocato Agnelli la chiamò per dirigere prima La Stampa e poi il Corriere della Sera e «mettere la minigonna a una vecchia signora». Fu una battuta o un avvertimento?

Paolo Mieli: Una battuta con il sapore di un avvertimento.

Negli anni di Tangentopoli, dirigere il Corriere della Sera fu un’operazione non senza rischi. Che cosa è cambiato da allora?

Oggi, siamo al punto di partenza. Questo Paese ha l’abitudine di ricostruirsi sulla menzogna. Nel 1861 anche i filo-borboni si dichiararono tutti patriottici. Questo atteggiamento trasformista è un’eredità che è arrivata fino ai nostri giorni. E nell’Italia bipolare abbiamo assistito al rimpallo delle responsabilità.

Come si cambia pagina?

Se si vuole voltare pagina bisogna farlo con i fatti, non a parole. Stiamo attenti a chi si presenterà come innovatore della politica o salvatore della Patria. I momenti di crisi economica facilitano il trasformismo. Il ciclo politico di Berlusconi è al termine. Il berlusconismo no. Chi è coetaneo di Berlusconi e si illude di poter prendere il suo posto, farà la fine degli imperatori Galba, Otone o Vitellio. La storia ha in sostanza cancellato le loro tracce.

Lei è passato alla storia del giornalismo italiano per l’editoriale con cui dichiarava l’appoggio elettorale alla coalizione di Romano Prodi nel 2006. Si è mai pentito di averlo scritto?

Nel mondo, i giornali prendono posizione. L’endorsement è un’operazione di trasparenza. Di solito, dichiaro di essermi pentito, in realtà non è così.

A prendere posizione devono, però, essere i giornali neutrali. Se lo fa Il Giornale oppure La Repubblica non c’è notizia.

Si invocano spesso i cosiddetti poteri forti. Ma chi sono?

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Chi conta non è necessariamente chi ha un ruolo pubblico. I veri potenti si tengono al riparo dai riflettori della ribalta. La vicenda di Bisignani e della P4, lo dimostra. I veri potenti prendono l’autobus o viaggiano in taxi per non dare nell’occhio.

Che cosa significa innovazione?

Significa cambiamento di modelli, di organizzazione, di mentalità, di leadership non per battere l’avversario, ma per governare. Altrimenti è solo trasformismo. Anche il mondo delle imprese deve cambiare. Quando si chiede al Paese di fare sacrifici, bisogna saper dare l’esempio. Se esploderà una rabbia sociale sarà motivata dall’atteggiamento arrogante di chi vuole farla franca. Bisogna fare spazio ai giovani. Ma ai giovani veri, non solo in senso anagrafico.

Carlo De Benedetti è il “Soros” della sinistra italiana?

Non credo. Se utilizzerà quei 560 milioni di euro per fare qualcosa per gli italiani – però – non sarebbe una cattiva idea.

Cambia il mestiere del giornalista. Cosa resta?

Cambiano gli strumenti. Resta la capacità di testimoniare la verità, che fa la differenza.

Per cinque giorni è stato presidente della Rai. Che ruolo avrà la televisione nel futuro dell’informazione?

Un ruolo sempre più marginale. Il target dei notiziari è tra i 40 e gli 80 anni. L’opinione pubblica dei giovani si forma in Rete.

Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, ha fatto il suo debutto su Twitter. Qual è il suo rapporto con i social network?

Riconosco la forza di questi strumenti. Preferisco, però, non utilizzarli perché mi farei coinvolgere troppo.

A fine Ottocento, grazie all’abolizione della censura preventiva, i giornali, per la prima volta, diventarono strumento di informazione, come – oggi – potrebbero essere i social network. Ma è veramente così?

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La Rete permette la circolazione delle informazioni e della conoscenza. È l’informazione veloce che genera cambiamento. Gli Usa hanno concentrato l’attenzione delle sedi diplomatiche sui percorsi del Web. In Italia, la politica sottovaluta il fenomeno, non lo comprende.

Qualcuno ha fatto un parallelo tra il Risorgimento italiano e la Primavera araba. Lei è d’accordo?

Con tutto il rispetto per il Presidente della Repubblica non ci sono analogie.

Il Risorgimento non fu movimento di massa, ma di élite. Non ci furono piazze.

In Tunisia, Algeria, Egitto, la tecnologia sempre più accessibile anche ai redditi più bassi ha consentito ai giovani di riempire le piazze.

L’Italia è fuori pericolo?

I mercati stanno facendo un calcolo di convenienza sull’Italia, ma non hanno ancora tirato le somme.

Se le chiedessero di entrare in politica?

No. Ci sono mestieri che si rovinano. Indro Montanelli rifiutò il posto di senatore a vita. C’è chi briga giorno e notte per averne uno. Chi è capace di dire no alle lusinghe del potere è un grande uomo. E io aspiro a diventarlo.