Philippe Daverio Illuminazioni contemporanee


Arte, società ed Expo 2015.

«La critica d’arte è la presa d’atto della realtà»

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Se le Borse vanno male, quale bene rifugio migliore dell’arte? Opere d’arte come asset finanziario alternativo. In questo momento, l’arte potrebbe rappresentare un investimento altamente mobile e liquido, per mettersi al riparo dalle turbolenze del mercato, meglio dell’oro e dei franchi svizzeri. La collezione privata custodita, a suo tempo, da Callisto Tanzi lo dimostra. Amministratori delegati, capitani d’impresa e top manager sono i nuovi mecenati: hanno messo in portafoglio capolavori da fare invidia ai curatori dei musei. Quelli che – per amore dell’arte o fiuto per gli affari – hanno acquistato, negli anni Ottanta, Cattelan o Kounellis, oggi, ringraziano la buona stella o i loro personal art advisor.

Visitare il Padiglione Italia della Biennale di Venezia di quest’anno può servire per farsi un’idea sulle nuove tendenze o quanto meno per cercare di risolvere il dilemma con un’illuminazione: tutta l’arte è contemporanea o l’arte contemporanea è tutta arte? Ma il vero Padiglione Italia sarà quello diffuso lungo tutta la Penisola. Philippe Daverio, ha curato a Bologna il progetto 1000+1000+1000. «In mille s’è fatta l’Italia, in 3.000 si può far di più, forse addirittura rianimarla e salvarla».

Con il suo stile inconfondibile, Philippe Daverio sta alla divulgazione della storia dell’arte, come Piero Angela a quella della scienza. Competenza enciclopedica e passione contagiosa. Tra una registrazione di una puntata e un volo per Cuba, riesce a trovare il tempo per rispondere alle mie domande. Niente scaletta o domande concordate, parla a braccio. Generoso, senza riserve, autentico. Radici profonde nella dimensione locale dell’esperienza e sguardo aperto alla comprensione globale del mondo. Il suo papillon è il contrappunto al rigore. Philippe Daverio possiede quella capacità di legare insieme i fili della storia, restituendoci un’immagine completa della nostra contemporaneità. Il suo modo di raccontare è diverso: andare alla sostanza, ma con leggerezza di spirito e una buona dose di ironia. Ha cambiato il modo di fare la critica d’arte e i libri d’arte. Philippe Daverio, (classe 1949, nato a Mulhouse, in Alsazia) ha girato il mondo con passaporto francese e italiano. Nel 1975, ha aperto la Galleria di via Montenapoleone: la prima mostra, quella del futurista Thayaht. Adora i dialetti, parla lo svizzero tedesco come il lombardo – però – con l’accento partenopeo ha ancora qualche problema. Ma non per passate avventure politiche che lo hanno visto assessore alla Cultura del Comune di Milano, con il sindaco in quota alla Lega Nord, Marco Formentini. In quel ruolo, anzi, gli va riconosciuto il merito di aver rilanciato il modello espositivo e la gestione di Palazzo Reale. Attualmente, conduce la trasmissione “Passepartout” su Raitre e “Emporio Daverio” su Raicinque, oltre a essere direttore del periodico ART e Dossier. È docente ordinario di Disegno Industriale all’Università degli Studi di Palermo. «Arte, scienza e tecnologia sembrano concetti apparentemente lontani. Anche lo scienziato si serve di termini come bellezza ed eleganza: l’estetica è un valore decisivo anche nel processo scientifico e non soltanto in quello artistico». Ma i circuiti di un microchip, quelli di una scheda di memoria o la struttura di un database di una grande azienda potrebbero essere considerate opere d’arte? La domanda ha la stessa ingenuità, che avrebbe potuto avere un ingegnere del 1890 di fronte a una biella di locomotiva, con tutte le guarnizioni in ottone e la stagnatura esterna. Per Daverio, «i futuristi ci hanno creduto – però – non è successo».

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Data Manager: Nell’era dell’informazione, che ha trasformato il diritto di opinione in un caos di fondo, c’è ancora posto per la critica?

Daverio: Non vedo un problema particolare. La critica d’arte parte da un concetto fondamentale di tipo estetico e rappresenta la via per la presa d’atto della realtà.

Per alcuni suoi colleghi, come Lea Vergine, per esempio, «la critica d’arte è morta».

Nel Novecento si sono celebrate molte dipartite, ma la critica d’arte è ancora tra noi. Alcuni miei colleghi sono troppo più anziani di me per comprendere i fenomeni contemporanei. Lea Vergine è un’amabile signora che appartiene a un ciclo storico molto lontano dal nostro. Può darsi che lei sia spaventata.

Che rapporto c’è tra arte e innovazione tecnologica?

Oggi, fingo che ci sia, ma non c’è per niente. C’è un tentativo di dialogo. Al momento, sono due strade molto distanti, che – forse – si incroceranno di nuovo. Chi si occupa di arte è troppo poco colto e chi si occupa di tecnologia è troppo specializzato. Eccezioni a parte, s’intende.

In Italia, cultura scientifica e cultura umanista non riescono a incontrarsi…

Questa separazione c’è sempre stata. L’Italia gentiliana e crociana ha tagliato completamente i ponti con l’eredità formidabile del Rinascimento…

Qual è il futuro delle avanguardie?

In un mondo iperconnesso e trasversale le avanguardie non possono esistere. Le avanguardie esistono solo se c’è una massa monolitica e omogenea con un’indicazione direzionale impressa dall’esterno.

Cosa pensa dei social network?

Sono un fenomeno molto importante della comunicazione.

Li usa?

Vengo usato, la cosa non mi dispiace. Preferisco restarne fuori, perché mi coinvolgono e mi faccio coinvolgere troppo. La pagina Facebook di Passepartout ha quasi 60mila iscritti, fra un po’ la organizzeremo meglio per consentire la condivisione dei nostri archivi.

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La Rete è la nuova frontiera della cultura di massa?

La cultura di massa corrisponde a una mutazione assoluta dei sistemi di aggregazione della società. Da quando esiste la meccanica nuova della comunicazione trasversale, non ci sono più masse.

Possibilità di generare nuove tendenze?

In pratica nessuna. Le masse non hanno più avanguardia.

Il cosiddetto “made in Italy” è solo una “piccola” marca?

No. È ancora un valore che vale moltissimo, che però tentiamo in tutti i modi di svilire e distruggere.

In Italia manca un approccio manageriale per dare valore al sistema dell’arte e dei musei? O è una fortuna che non ci siano supermanager?

Ci hanno provato. Ma è la cosa peggiore. Manca un’elite culturale che esprima un pensiero. L’Italia è un Paese che non ha pensieri, né forti, né deboli.

Chi o che cosa la ispira nella sua ricerca?

La Provvidenza, forse.

Le tensioni sull’Expo 2015 non sono mai state così forti, come in questo momento. Che cosa si aspetta?

L’Expo di Milano ha bisogno di pensieri chiari e azioni risolutive. Per il momento l’Expo è un simpatico contributo di infrastrutture, che saziano l’appetito degli immobiliaristi. Per carità, le infrastrutture restano, se fatte bene, sono un’eredità importante per la città di Milano.

Lei ha sempre avuto una posizione, per così dire, critica…

L’Expo di Milano rientra nella categoria delle cose inutili per noi e dannose per gli altri. L’Expo bisognava farla a Smirne: sarebbe stato un contributo per fare avvicinare l’Europa, alla Turchia, il Paese del Mediterraneo con il più alto tasso di crescita; sarebbe stato l’occasione per il dialogo con l’Islam moderato e questo avrebbe giovato all’Europa, portandola al centro di un ruolo internazionale di primo ordine. Tutto questo avrebbe rappresentato un interesse più alto da perseguire, in confronto all’interesse economico di una lobby italiana di costruttori, i quali non riescono a fare bene le case perché non sanno fare un concorso di progetto. Per fare un regalo a loro, abbiamo scippato un Paese, che sarebbe stato salvato dall’Expo.

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È tra quelli che spera nel fallimento dell’Expo?

Ormai non se lo augura più nessuno. Dopo Pechino, l’Italia si gioca la faccia davanti al mondo. Siamo a pasticcio avanzato e ce lo godremo tutto.

Certo, l’idea di parco agricolo globale poteva essere il nuovo modello di esposizione universale. Ci avevamo pensato per primi, ma chi lo fa?

«L’orto planetario è un’allegoria». Lo ha ribadito anche il segretario generale del Bie, Vicente Loscertales.

Tre anni fa, quando avevo fatto la campagna per Filippo Penati per la Provincia, avevo lanciato seriamente un’ipotesi di lavoro di quel tipo: diamo l’esempio di una città che lavora a chilometro zero, su almeno un quarto della sua alimentazione. Era un messaggio di grande modernità e di integrazione sostenibile e virtuosa tra campagna e città, che i cinesi – come tutti i popoli dei Paesi emergenti – avrebbero guardato con enorme attenzione. Ormai è tardi. Sono d’accordo con quello che ha detto Mario Botta: gli alberi ci impiegano dieci anni a crescere, non si possono piantare il mattino prima.

E cosa pensa del nuovo logo dell’esposizione? Meglio l’uomo vitruviano?

Inutile. Non c’è nulla da pensare. Fa parte della vacuità complessiva.