Pasquale Natuzzi stile italiano, business globale


Innovazione e internazionalizzazione «Resistere e non arrendersi»

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Pasquale Natuzzi rappresenta un certo modo di fare impresa, perché il capitale non conta niente se non c’è il lavoro. È un esempio per chi combatte con i bilanci in rosso, perché lui ha sempre combattuto con le difficoltà e non si è mai arreso. È un modello per i giovani e per il Sud in cerca di riscatto, perché non si va da nessuna parte, se non sai chi sei e cosa vuoi. Il racconto della sua avventura imprenditoriale è degno di una sceneggiatura. Il suo è uno dei marchi simbolo del made in Italy di qualità e la sua è stata una delle presenze più interessanti alla cinquantunesima edizione del Salone del Mobile di Milano, che quest’anno – dopo il debutto sui social network – ha riservato particolare attenzione al connubio design e tecnologia.

La storia del Gruppo Natuzzi (www.natuzzi.com), ha inizio nel 1959, in un piccolo laboratorio a Taranto, sei anni prima che il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, inaugurasse il più grande polo europeo dell’acciaio. In quel periodo, Pasquale Natuzzi, non ancora ventenne, dopo aver attaccato i pattini al chiodo (a 18 anni era stato campione nazionale di pattinaggio) comincia a realizzare i primi divani per il mercato locale, mettendo insieme la passione artigianale – ereditata dal padre ebanista – e un’istintiva coscienza del valore di marca. Pasquale Natuzzi – in una Italia che provava a essere industriale – aveva già una visione post-industriale del business.

Nel 1962, si trasferisce a Matera, dove ha inizio la produzione su larga scala. Dieci anni dopo, fonda la società Natuzzi Salotti. Un anno più tardi, a causa di un incendio, che distrugge completamente il capannone di Matera, decide di trasferire la produzione a Santeramo in Colle (BA), dove – tuttora – si trova il quartier generale del Gruppo. Natuzzi è la più grande azienda italiana nel settore dell’arredamento. Non solo. La holding Natuzzi Spa è l’unica azienda non americana del settore “arredamento” quotata a Wall Street dal 1993. Nel 2011, ha fatturato 486,4 milioni di euro. Il Gruppo esporta il 90% della produzione in 123 mercati e detiene le maggiori quote di mercato in Europa con il 52% e in America con il 34%. La produzione è realizzata in undici stabilimenti in Italia, Cina, Brasile e Romania. Se negli anni 80, la missione è stata quella di “democratizzare” il divano in pelle, negli ultimi dieci anni, Pasquale Natuzzi si è impegnato nel riposizionamento del marchio: non solo divani, ma total living di alta gamma. Un’operazione costata 500 milioni di euro. Il gruppo industriale ha potuto governare la propria espansione a livello mondiale, grazie a un processo continuo di innovazione, dalla logistica al marketing, dalla produzione al controllo in tempo reale della qualità e delle performance di business.

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Data Manager: Quanta ICT c’è nella sua azienda e quanta tecnologia c’è nella sua vita?

Pasquale Natuzzi: Senza innovazione tecnologica, il Gruppo non sarebbe potuto diventare un brand globale. La continua espansione del nostro gruppo e l’aumento delle necessità di analisi delle informazioni è supportata dal sistema gestionale SAP con il supporto di Microsoft SQL Server. In questo modo, tutte le funzioni aziendali e tutti i negozi sono collegati e controllati con indicatori settimanali e mensili di produttività e qualità. Utilizziamo la piattaforma Web anche per fare formazione a distanza. Senza questa infrastruttura tecnologica, non saremmo in grado di governare l’azienda in modo efficiente. Quanto alla mia vita – ormai – non posso fare più a meno del mio iPad: non riesco a spegnerlo e sono costretto a lavorare molto più di prima.

Da un paio di mesi, avete messo a punto un sistema di progettazione d’interni in 3D per supportare la forza vendita. Di cosa si tratta?

La soluzione software si chiama “Your Design” e consente di creare il proprio ambiente e arredarlo con divani, mobili e complementi della collezione Natuzzi. È un vero sistema di interior design, che permette la creazione di stanze virtuali da arredare interamente. Il servizio è disponibile gratuitamente sia nei punti vendita, sia a casa del cliente. Con questo servizio ci proponiamo di rendere il consumatore protagonista della propria esperienza di acquisto.

Quali sono le regole della competizione globale?

Quando si parla di prodotto, la competizione nel mondo è molto forte. In questa sfida vincono i Paesi con un basso costo della manodopera. La Cina ha messo in ginocchio l’industria manifatturiera occidentale. Quando parliamo del valore di marca, invece, vince la qualità. L’unico modo per sopravvivere è spostare il terreno della competizione e alzare il livello. C’è una globalizzazione, che punisce questa parte del mondo, ma c’è anche una globalizzazione positiva, più lenta, che viaggia nella direzione opposta e che non si fonda sullo sfruttamento, ma sul rispetto dell’ambiente, sul rapporto con i propri dipendenti, il valore della conoscenza, la scelta dei materiali, la ricerca dell’eccellenza. Sono questi gli elementi che costruiscono il successo. Sono questi i valori che fanno la qualità del prodotto.

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L’Italia, primo Paese esportatore di mobili a livello mondiale, è stata superata dalla Cina. Da imprenditore, la Cina è una minaccia o un’opportunità?

A febbraio, l’ambasciatore cinese in Italia, Ding Wei, ha scelto la nostra azienda, come unico momento d’incontro con le imprese del territorio nel corso della sua visita ufficiale in Puglia. La Cina, alla pari di Russia, India e Brasile, rappresenta un’area chiave nell’ambito delle strategie del Gruppo. Si tratta di una formidabile opportunità per le nostre strategie produttive e per il nostro made in Italy, che raccoglie sempre maggiori consensi.

Che cosa significa “made in Italy”?

Non sono d’accordo con l’architetto Enzo Mari, quando dichiara che il made in Italy è una “piccola marca”. Nonostante gli attacchi, il made in Italy continua a essere un valore importante. Io credo in questo valore, a patto che dietro ci sia il lavoro, la ricerca della qualità e dell’eccellenza.

Ma si tratta di un valore che ci meritiamo o che facciamo di tutto per affossare?

Bisogna meritarselo, evidentemente. E bisogna distinguere le aziende serie, da quelle “furbe”.

Lei è stato l’artefice del riposizionamento del marchio Natuzzi. Per riposizionare il Mezzogiorno da dove si comincia?

Comincerei dalle infrastrutture innovative come la banda larga, la mobilità sostenibile e punterei sullo sviluppo del turismo e dell’accoglienza per trasformare il Mezzogiorno nella Florida degli Stati Uniti.

Qual è la lezione più importante che ha imparato e quale quella che spera di avere trasmesso?

Mio padre mi diceva: «Chi lavora per i poveri, vive da ricco». Ai miei collaboratori spero di aver trasmesso l’etica del lavoro, la trasparenza, la passione per la qualità.

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Come si superano i momenti difficili?

Non bisogna arrendersi. Ho iniziato dal nulla, in una parte di Italia che – ieri come oggi – offre poche opportunità: al mattino, mi svegliavo, con la voglia di fare e il sorriso – lo stesso sorriso – che hanno i giovani in Brasile. Oggi, i nostri giovani non sorridono più. La crisi non mi spaventa. Mi spaventa la mancanza di speranza. Molte imprese scelgono le scorciatoie e rinunciano alla strategia. I sogni sono il carburante per fare le cose. Sono sposato e ho cinque figli. Per me la famiglia è una risorsa importante. Il lavoro è il cuore dell’impresa. Ma bisogna capire che il mondo è cambiato. In Italia, servono riforme in grado di rendere il mercato del lavoro più fluido e dinamico.

Che cosa le piacerebbe leggere nei prossimi sei mesi sulla sua azienda?

Che il Gruppo Natuzzi ha ripreso a macinare utili.