Se l’on demand risponde

Andrea LawendelSiamo davvero al limitare di una nuova fase della lunga storia dell’informatica per l’impresa?

Il brand simbolo di questa disciplina, IBM, ne è convinta e per quanti stravolgimenti si siano verificati nel settore, malgrado una oggettiva perdita di centralità rispetto ai tempi gloriosi del mainframe, dei sistemi midrange e infine dell’invenzione del personal computer, continua a essere molto difficile prescindere dalla vision targata Big Blue.

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Le ultime campagne di brand lanciate da IBM hanno avuto successi alterni. La metafora dell’informatica on demand ha spianato la strada ai concetti del cloud computing e la forte affermazione dei provider di servizi IaaS, insieme al diffondersi di piattaforme come OpenStack nel mondo private cloud ha di fatto reso concreta l’immagine della potenza di calcolo assimilata a suo tempo alla corrente elettrica. Meno efficace si è rivelato lo slogan “smarter planet”, forse perché chiamava in causa una complicità tra fronti dell’offerta e della domanda che si è verificata solo in parte.

Più convincente, perché fondata anche su presupposti teorici piuttosto solidi e su una concreta realtà fattuale (la disponibilità di una marea di informazioni non strutturate ma già in formato digitale), la nuova idea di cognitive computing. L’informatica cognitiva è uno strumento che non si limita a ordinare, visualizzare o estrarre informazioni che da qualche parte, magari un po’ camuffate, esistono già. Il computer cognitivo impara dall’esperienza, mette insieme dati apparentemente scollegati tra loro e dà una risposta a quesiti inediti. Un po’ come facciamo noi con il nostro cervello.

Conversando con Mike Rhodin in occasione dell’incontro che IBM ha organizzato a Milano con gli universitari di Europa, Mediterraneo e Africa, il capo del Watson Group raccontava per esempio che il sistema cognitivo messo a punto per rispondere alla nuova “big challenge” computazionale di Armonk è stato utilizzato anche in cucina. Un grande chef ha interrogato Watson a proposito di nuovi possibili abbinamenti di sapori e sono saltate fuori ricette anche strampalate, ma decisamente interessanti e valide. Ibm sta investendo molto nel tentativo di trasformare l’informatica cognitiva in una straordinaria arma competitiva per i suoi clienti, un’arma che consenta di trasformare in valore di business un fenomeno, big data, che ha anche molti risvolti inquietanti (l’information overload può anche essere un’arma a doppio taglio). Le manovre di Ibm in questa nuova direzione sono anche il tentativo di dare continuità a una grande presenza sul mercato globale, certo. Ma al di là degli specifici meriti del progetto Watson e dell’attuale strategia di trasformare il computer vincitore di un quiz televisivo in un ambiente vincente di prodotti e servizi – tutti i big dell’informatica e i rispettivi ecosistemi sono fortemente impegnati a indirizzare la realtà enterprise. Questa realtà ha di fatto sancito l’inizio di un periodo nuovo, dominato dal moltiplicarsi dei dispositivi, dalla mobilità e dalla condivisione. Inoltre, la costante produzione di dati potrebbe davvero servire per inventarsi nuove cose, gestire meglio quelle vecchie, automatizzare e ottimizzare le situazioni dove ancora l’uomo deve fare troppa fatica o rischiare la propria incolumità.

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Forse, è solo la riedizione dei primi, ingenui sogni dell’informatica anni Cinquanta. Ma la sensazione è che questi sei decenni non siano trascorsi invano e che le tecnologie del computer cognitivo non siano mai state tanto concrete. L’obiettivo è difficile ma possibile. Resta il rammarico dell’unica cosa da cui l’intelligenza artificiale non potrà liberarci: la stupidità naturale. Ma questo è un altro discorso.