Con la scomparsa di Luca Ronconi, se ne va un innovatore, uno sperimentatore del linguaggio, un uomo gentile e coraggioso, non solo un regista teatrale

L’8 marzo avrebbe compiuto 82 anni. Se pensare con le macchine – e non come le macchine – rappresenta l’imperativo del nuovo umanesimo, Luca Ronconi lo aveva saputo fare meglio di qualunque altro. Nell’annunciare «con dolore» la morte del regista, il Piccolo Teatro di Milano che era la sua seconda casa, lo ha ricordato come «un artista che ha scritto la storia del teatro italiano». Gli attori in scena nel suo ultimo lavoro, che narra le vicende del fallimento della banca d’affari di Lehman Brothers, lo hanno salutato dal proscenio. Lo spettacolo Lehman Trilogy sarà ripreso in onore del maestro dal 12 al 31 maggio e rappresenta il suo ultimo sforzo di fare del teatro uno strumento di comprensione della realtà, non solo di rappresentazione del mondo.

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Quando Ronconi porta in scena i paradossi dell’infinito di Barrow, riesce a dire di più sulla scienza di quanto potrebbe spiegare un matematico. Quando parla della saga dei fratelli Lehman mette in scena la parabola del talento e la fallacia del potere.

Luca Ronconi sta al teatro come Albert Einstein sta alla fisica. Per Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro di Milano, Luca Ronconi resta «uno scienziato tra i registi». Da anni impegnato in un cammino di ricerca teatrale personalissimo, Luca Ronconi è stato per molti addetti ai lavori “il nuovo” sulla scena, in una sfida continua al testo e alla tecnica.

Mentre si dedica alla sua memoria la scuola del teatro di via Rovello, ci si interroga su chi potrà prendere il suo posto. Non sarà facile trovare un erede di Ronconi, ma lui credeva nei giovani e tra quei giovani che aveva aiutato a trovare la loro strada – forse – bisognerà cercare un successore.

Del resto, quello del succession planning è un problema con cui – prima o poi – tutte le aziende devono fare i conti. Quasi tutte le persone che fanno parte di un consiglio di amministrazione lo considerano un tema prioritario. E fra qualche mese, lo sarà anche per il CdA dell’Unione dei Teatri d’Europa, di cui il Piccolo Teatro è stato capofila.

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Lo scienziato dietro le quinte

Nato a Susa (Tunisia) l’otto marzo 1933 (dove la madre insegnava lettere), Luca Ronconi deve a questo “spaesamento” la sua capacità di prendere le distanze dai luoghi paludati del teatro contemporaneo. E non a caso, da regista ha lasciato istruzioni anche per il suo funerale che ha voluto che si celebrasse in forma privata. Lontano da Milano, nella piccola frazione di Civitella Benazzone, in provincia di Perugia. Nell’isolamento dei boschi, forse aveva trovato quel legame di senso che era stato la ragione della sua ricerca. Ho incontrato Luca Ronconi due volte. Nel 2006, durante le prove di Turandot di Giacomo Puccini al Teatro Regio di Torino, accompagnato da un comune amico scenografo. E l’anno prima, mentre stava lavorando alla regia dell’Europa riconosciuta di Antonio Salieri per la riapertura del Teatro alla Scala di Milano dopo il grande restauro. «In quel progetto – Luca Ronconi raccontava – di aver ritrovato l’anima antica della Scala, ma con una struttura architettonica e tecnologica completamente nuova, pensata per il teatro del futuro». In entrambe le occasioni, lo ricordo disponibile all’ascolto come nessun altro. Luca Ronconi era capace di trasmettere la sensazione che il tempo dedicato a rispondere alle domande di un giornalista sconosciuto che cercava di fare il suo mestiere fosse importante anche per lui: «Ci rincontriamo. Che cosa vuole sapere questa volta»?

Ricordo la voce chiara, le mani che disegnavano nell’aria e che indugiavano sulla barba, mentre descriveva la grandiosità della macchina scenica della Scala, le strutture imponenti dei carri compensatori. Ma anche il progetto di digitalizzazione dei depositi e degli archivi sviluppato insieme alla Fondazione Italiana Accenture e ai partner tecnologici Fastweb, HP e Oracle. Il suo rapporto con la tecnologia era fatto di curiosità. Ma si trattava di una questione legata al metodo della conoscenza, più che di semplice infatuazione legata agli oggetti tecnologici.

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Scienza e tecnologia

Nella primavera del 2002, nell’ambito del Progetto Sigma-Tau, aveva realizzato, per il Piccolo Teatro di Milano, Infinities. Scienza e tecnologia come argomento di teatro. Per molti un azzardo intellettuale. Eppure, il successo di pubblico e di critica dimostrò che si trattava di un rapporto possibile. Anzi, dimostrava che il teatro era ancora uno strumento potente che poteva parlare a tutti di tutto. Infinities è un’opera sul concetto di infinito e sui paradossi matematici dell’infinito. Ma Luca Ronconi si era occupato di scienza e tecnologia anche quando aveva fatto la regia per “Il Candelaio” di Giordano Bruno. «Quando decido di fare uno spettacolo – raccontava il maestro – mi pongo sempre molte domande. E farsi delle domande è alla base di ogni metodo scientifico. La rappresentazione è un modo per cercare di saperne di più su quel testo, su quel personaggio e condividerlo con il pubblico. La contemporaneità del teatro non è una questione di stili teatrali, di forme teatrali o di nuovi modi di scrivere. Questo è stato il pane dell’avanguardia nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle». E anche il connubio tra teatro e scienza non è un fatto nuovo. «Nel teatro dell’Ottocento, ci sono stati testi e spettacoli che trattavano di scienza e tecnologia. La differenza con il contemporaneo sta forse nel fatto che la materia dell’opera, oggi, incide anche sulla struttura e la drammaturgia. La scienza e la tecnologia permeano così da vicino la nostra esistenza quotidiana che è naturale trovarne il riflesso anche a teatro».

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[Tweet “#LucaRonconi innovatore del linguaggio, non solo regista “]

Ma per Luca Ronconi, non si trattava di vedere come il teatro fosse in grado di parlare di scienza, ma in che modo «la scienza potesse parlare a teatro». Per lui era possibile portare in scena un fatto in circostanze dove non fosse il personaggio il fulcro della rappresentazione e dove il dialogo non fosse il mezzo di comunicazione. «Non esiste teatro se non si presuppone un pubblico e non esiste teatro se non si presuppone la libertà del pubblico rispetto all’opera». Quindi un teatro scientifico presuppone che il messaggio o l’ipotesi che viene posta attraverso lo spettacolo raggiunga tutti gli spettatori in una maniera identica e questo – per Luca Ronconi – era «un fatto per definizione impossibile e neanche tanto auspicabile».

[Tweet “#LucaRonconi quale succession planning per il CdA dell’Unione dei Teatri d’Europa?”]

Questione di metodo

«Può sembrare che io abusi della tecnologia – spiegava Ronconi – e che l’apporto tecnologico sia in qualche modo ingombrante. In realtà, non sono per niente un patito della tecnologia a teatro. D’altra parte, fra i tempi del teatro e quelli della tecnologia c’è una discrepanza forte. Ciò che è nuovo un anno o in un certo periodo è tecnologicamente superato l’anno dopo. Nelle forme artistiche e nelle forme teatrali la durata nel tempo è fondamentale. Quindi, per qualsiasi forma artistica, il rapporto diretto con la tecnologia, penso che sia abbastanza difficile. Molto spesso, infatti, porto in palcoscenico le tecnologie già obsolete, quasi fosse una specie di “memento mori”. Il metodo di lavoro è invece assolutamente scientifico. Sperimentazione e verifica dovrebbero essere dei procedimenti costantemente applicati. Come nella scienza, non si tratta di dire se una cosa è vera o falsa, ma se è fondata o se non è fondata. Anche in teatro – e al di là della scienza – nel momento in cui si fa una scelta artistica, è opportuno fare una verifica continua per sapere se quello che ti sembra interessante, magari non è invece una stupidaggine».

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[Tweet “#LucaRonconi Lo scienziato dietro le quinte “]

Azione e provocazione

E quando gli chiedevi perché i suoi spettacoli fossero così lunghi e faticosi, Luca Ronconi si metteva a ridere e spalancava le braccia. «Non mi pare di costringere nessuno. Un’opera può essere comunicata nella sua continuità o nella sua discontinuità, un quadro può essere ammirato nel suo complesso o nel suo dettaglio. Non mi piace pensare a una qualsiasi rappresentazione artistica come fosse un piatto di bucatini all’amatriciana da mangiare fino all’ultimo boccone. Non ci può essere un rapporto così terrificante tra l’opera e il suo destinatario. Non costringo a fare delle abbuffate, ma cerco di concepire delle opere in cui non sia necessario ingozzarsi fino all’ultimo per sapere che sapore hanno».

[Tweet “#LucaRonconi il teatro come azione e provocazione”]

Anche sulla funzione del teatro, Luca Ronconi aveva un’idea innovativa. «Molto spesso la committenza chiede al teatro di essere una “buona azione” quando invece, nelle grandi epoche, il teatro è stato un’azione provocatoria. Oggi, molti vorrebbero un teatro domestico, vicino all’assistenza sociale. Non so se sono d’accordo. A me piace pensare che il teatro continua a essere una forma particolare di conoscenza del mondo. Ecco perché non rifiuto mai la tecnologia che ci aiuta a comprendere la realtà, sempre che non sia solo una inutile complicazione. Non mi interessa il teatro che rispecchia il mondo, perché sono certo che quel rispecchiamento nasconde in realtà una menzogna bella e buona».