Il racconto come arte o scienza? Le sei regole base dello storytelling

C’era una volta la novella. Oggi, si dice storytelling. Niente di nuovo che Carosello con i siparietti di Artioli non abbia già sperimentato e che i nuovi mezzi di comunicazione in qualche modo cerchino di riproporre con il fine di intrattenere, informare e convincere. Gino Bramieri per Montecatini-Edison lanciava nell’etere la scoperta del Nobel italiano Giulio Natta, celebrando le gioie di un mondo di plastica («E signora, badi ben che sia fatto di Moplen»). Del resto, anche Boccaccio, Chaucer, Hoffmann, Poe, Verga, Pirandello e Buzzati non avrebbero disdegnato un contratto pubblicitario a patto – s’intende – di raccontare sempre la verità. Ma la verità sta al racconto come la sabbia alla malta del muratore: dipende dall’impasto.

E Calvino nelle sue Lezioni Americane offre ancora un vademecum delle caratteristiche del racconto che aziende, pubblicitari e qualche cosiddetto esperto dovrebbero rileggere. Il racconto richiede quello che una volta si chiamava “mestiere” e che oggi tutti sono abituati a considerare “arte”, forse perché il lavoro vero spaventa o affligge. E se invece il racconto fosse una scienza? In un mondo di fenomeni – più o meno in senso tecnico –  tutto è rappresentazione. Gli elementi del racconto, la sequenza e il carattere delle descrizioni decidono la storia. Ma senza conflitto, desiderio, volontà e promessa della felicità non c’è storia degna di essere raccontata. Nell’era dei social network, tutti in qualche modo siamo parte di un unico racconto globale che ci rende simili per bisogni e desideri e che gli algoritmi della Rete tracciano, descrivono e riducono a una formula ripetibile. Dagli indici di Wall Street al lancio di un nuovo prodotto sul mercato: tutto è racconto. Ma come si racconta una storia? E le aziende sono capaci di raccontare quello che fanno?

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Il racconto e il linguaggio sono stati al centro della seconda edizione del Festival della Comunicazione di Camogli. Per Andrea Fontana, che potremmo definire uno “scienziato del racconto”, la narrazione è un punto di vista sulla realtà. «Quando il punto di vista è assunto per un certo tempo da una comunità, diventa cultura e tradizione radicata». Presidente dell’Osservatorio Italiano di Corporate Storytelling all’Università di Pavia e autore del Manuale di Storytelling, edito da Etas-Rizzoli, Andrea Fontana, da molti anni, si occupa di consulenza strategica, marketing istituzionale e direzione d’impresa. La prima regola da imparare per raccontare il mondo è capire ciò che ciascuno ha dentro di sé, come insegna J. J. Abrams. Del resto, la «mistery box» dell’autore di Lost somiglia tanto all’Io-voglio. Ma oggi, Schopenhauer sarebbe molto meno cool. Le tecniche del racconto dominano sempre di più le dinamiche della comunicazione pubblica. Senza l’esperienza del racconto non compreremmo i prodotti di marca, non voteremmo per quel politico e non ci faremmo un’opinione sui conflitti in corso. Brand aziendali e soggetti politici usano la scienza della narrazione per costruire nuove identità, nuove relazioni e nuovi consensi. Chiedersi qual è il fine del racconto è la condizione di partenza della libertà del lettore-consumatore-elettore, ed è l’unico modo per non rimanere “vittima” o “bersaglio” inconsapevole del racconto.

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Data Manager: Se tutto è “notiziabile”, tutto è “raccontabile”? Allora, qual è lo specifico dello storytelling?

Andrea Fontana: Non è vero che tutto è raccontabile. Si racconta soltanto attraverso alcune condizioni e regole. Il coinvolgimento dei pubblici nel racconto, l’autenticità e soprattutto le competenze narrative rappresentano lo specifico dello storytelling. Occorre cioè avere una precisa strategia del racconto. Occorre saper costruire immaginari e mondi visivi – e con la grande densità di media disponibili – occorre saper disegnare la giusta orchestrazione mediatica: il mezzo di comunicazione adatto per il pubblico specifico con la storia significativa dedicata. Per cui, direi proprio che non tutti sanno raccontare e quindi non tutto è raccontabile.

Che cosa trasforma un fatto in una storia?

La nostra mente. Come le neuroscienze hanno dimostrato, noi pensiamo narrativamente. I neuroscienziati americani parlano di storytelling animal. Davanti a un fatto costruiamo automaticamente un racconto. Fa parte del funzionamento del nostro cervello che non sopporta il vuoto di significato. Intorno a ogni fatto, creiamo un racconto significativo, anche parziale.

Che cosa è il racconto?

Un racconto è una rappresentazione, testuale, visiva, auditiva, tattile e olfattiva che riguarda un soggetto, un oggetto o un evento. Come rappresentazione è un punto di vista sulla realtà. E quando il punto di vista viene assunto per un certo tempo da una comunità, allora diventa cultura e tradizione radicata.

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Quanto conta il linguaggio?

Molto ma non è tutto. Per fare storytelling d’impresa bisogna saper usare le parole, la scrittura ma anche i diversi tipi di linguaggio oggi disponibili per raggiungere i diversi tipi di pubblici.

Come si racconta l’impresa? E quali sono le differenze rispetto al passato?

Un’impresa si racconta innanzitutto ascoltando i pubblici. Una strada ancora troppo poco frequentata in Italia. Il vero racconto, quello importante, è quello dei pubblici ai quali un’impresa si rivolge.

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Evoluzione o ritorno al passato? Pensiamo alle storie di Carosello…

Entrambe le cose direi. La narrazione ci appartiene e quindi è un modello che mettiamo in pratica dalla notte dei tempi. Ma è anche vero che oggi assistiamo a un’evoluzione enorme non solo nel modo di costruire e di fruirli i racconti, ma anche nelle tecnologie di produzione e diffusione dei racconti stessi. E bisogna rimanere al passo con questa enorme evoluzione.

Dal rational all’emotional. La comunicazione d’impresa non rischia di ripetere i luoghi comuni che condizionano anche l’ADV nazionale?

Il ricorso al testimonial, l’eccesso di semplificazione non sono dinamiche evolutive e non appartengono ai processi narrativi. Anzi, ritengo siano cliché ormai logori di un certo modo di fare ADV. All’estero questi tipi di comportamenti comunicativi sono superati o – almeno – affiancati da nuove dinamiche di racconto d’impresa.

Distinguendo per categorie di industry, qual è il suo giudizio sulla comunicazione d’impresa in Italia?

Sta cercando nuove modalità di interazione con i pubblici. Il nostro Paese, soprattutto nell’ADV dei grandi gruppi, usa dinamiche consolidate che ormai hanno fatto il loro tempo. Si pensi all’uso eccessivo di comici e trame da commedia nella pubblicità. Non si vuole rischiare. Questo produce una certa stanchezza e il messaggio non ha più impatto sul pubblico. Vedo però diversi tentativi di innovazione. Le aziende e le organizzazioni (anche pubbliche) si stanno rendendo conto che devono cambiare e stanno cercando nuove dimensioni di coinvolgimento dei loro clienti e consumatori, che io preferisco chiamare “lettori”.

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Quali sono le imprese che comunicano meglio?

In questo momento, per me sono le imprese che hanno come necessità la vendita di prodotti TV o servizi per la pay per view. Come per esempio ABC o Sky.

Nell’ICT, quali sono le priorità del racconto?

Non vedo priorità particolari se non la necessità di fare storytelling con competenza ed efficacia. In questo senso, il tema diventa quali sono le regole di base con cui fare narrazione d’impresa.

Quali sono le regole di base dello storytelling?

Ascoltare il proprio pubblico. Saperlo leggere, capendo il momento di vita che il pubblico sta vivendo. Costruire un racconto significativo per il proprio pubblico. Inserire tensione personale e sociale nel racconto, perché abbiamo bisogno di riconoscerci in un tema sociale importante. Cambiare le trame: non solo commedia, ma anche epica, dramma, utilizzando tutti i registri stilistici e mediatici. E per finire, essere autentici.

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Il rapporto con la tecnologia nella vita personale e professionale?

Come molti ne sono “dipendente”. Ma sto cercando di disintossicarmi.

Il racconto perfetto?

La fine dell’eternità. Un bellissimo racconto di A. Asimov. Lo consiglio.

Lo storyteller preferito?

Ora, senza dubbio, J. J. Abrams.

Come non rimanere “vittima” del racconto?

Che parola orribile: vittima. La nostra mente e la nostra psiche scelgono il racconto in cui vogliono vivere. Non possiamo non avere parti narrative dentro di noi. Questo fin da bambini. Per cui direi che la differenza la fa la consapevolezza. Per non dipendere troppo dai racconti che ci circondano dobbiamo imparare a usare le storytelling skills. Avere competenze narrative ci consente di saper leggere i racconti che incontriamo e quindi scegliere quello migliore per noi.