Nella Papua Nuova Guinea, Iatmul, Korowai e Asmat sono tribù di cacciatori di teste che praticano il cannibalismo rituale. Nelle grandi metropoli occidentali, c’è un’altra specie di head hunter specializzata nella caccia di manager di alto profilo.

Un lavoro antico e ancora circondato da un certo mistero che ha ispirato anche l’omonimo romanzo noir dello scrittore norvegese Jo Nesbo. Tutti sono convinti che l’head hunter sia colui che può svelare ai manager i segreti per inserire il turbo alla carriera, ma troppo spesso si dimentica che l’head hunter non è un coach, ma tecnicamente un “cacciatore”. Il reclutatore di teste preferisce figure di altissimo profilo, legate all’area “executive” della società, ma ultimamente, a causa della crisi e della penuria di risorse, il suo terreno di caccia si è allargato anche alle figure intermedie. L’immagine del selezionatore vincente con la sua lista di contatti personali e uno stile di vita fatto di auto di lusso e ristoranti alla moda è un mito anni 80 che sopravvive nell’attività di intermediazione di grandi gruppi specializzati in executive search.

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Per capire come arrivare ai posti di comando, facendo salva la pelle, il giornalista economico, Fabio Magrino, e il più famoso cacciatore di teste italiano, Vito Gioia, hanno scritto un libro a quattro mani (Italian Manager, FrancoAngeli) che spiega senza peli sulla lingua come funziona il mondo dei top manager e dei cacciatori di teste. Con la prefazione di Enrico Sassoon, direttore responsabile di Harvard Business Review Italia e le interviste firmate da Magrino ad alcuni supermanager di successo come Sergio Marchionne, Lamberto Andreotti e Alessandra Perrazzelli, il libro è più di una guida con consigli di sopravvivenza, e rappresenta un vivido spaccato sull’evoluzione del management. La padronanza delle nuove tecnologie e la capacità di “pensare digitale” sono tra le qualità più ricercate. I superstipendi pagati per strappare i manager alla concorrenza, troppo spesso non premiano la schiera di manager subito al di sotto. I top manager giocano da soli, eppure alla prima occasione sono pronti a dichiarare che i risultati sono frutto del gioco di squadra. Il manager rimane il fiduciario degli azionisti, ma oggi deve tenere conto di una crescente platea di portatori d’interesse che azionisti non sono: i dipendenti, i clienti, i fornitori, i partner, il territorio in cui l’azienda opera, l’ambiente fisico, le categorie sociali svantaggiate e l’opinione pubblica.

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