A 23 anni dalla sua scomparsa, la lezione di Karl Popper si scontra con il paradosso della tolleranza e quello dell’informazione

Mentre abbiamo gli strumenti per raccogliere e analizzare montagne di dati, nella società dell’informazione, ai fatti si stanno sostituendo le “spiate” e le opinioni, al cervello la pancia, alla ragione il sentiment. Dal racconto della scienza, siamo passati alla scienza del racconto. La società aperta ha nuovi nemici. Con buona pace di Karl Popper. È vero – per restare al suo pensiero – che la società progredisce solo per prove ed errori, ma se non è possibile stabilire che cosa sia giusto definitivamente, come ci si può difendere dal “bug” del relativismo? Di fronte all’impoverimento del pensiero e alle derive della società dei consumi, lo stesso Popper si era scagliato contro la televisione, avanzando la proposta di dare una patente a chi lavorasse in TV per preservare il carattere formativo del mezzo. Oggi, che il web sopravanza la televisione, con la rete che diventa prima fonte di informazione e i social sono il luogo privilegiato di formazione dell’opinione pubblica (Reuters Institute for the study of journalism), forse bisognerebbe adattare quella proposta che la politica si guardò bene di prendere in considerazione, per porre un argine al dilagare della cosiddetta post-verità e delle fake news in Rete, dove dati e verifiche sono secondari rispetto agli stati d’animo.

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“Dobbiamo distinguere chiaramente tra verità e certezza” – scriveva Popper. “La certezza non è un obiettivo degno di essere perseguito dalla scienza. La verità lo è”. Ecco perché la conoscenza umana è di natura congetturale e ipotetica, e trae origine dall’attitudine dell’uomo di risolvere i problemi. Nell’era dei Big Data, che disarticola la dialettica tra ipotesi e tesi, ci sembra di potere elaborare leggi di natura, dando in pasto a potentissimi calcolatori valanghe di dati, rispondendo a domande che fino ad oggi non eravamo neppure in grado di pensare. Per Popper, una tesi ha carattere di scienza solo se può essere “falsificata”, in altre parole, lasciando in piedi ciò che non risulta sbagliato. Eppure le teorie di Darwin, Pasteur, Newton, Boyle, Einstein non partivano dai dati ma da un’idea iniziale tutta da dimostrare. E del resto, quante volte la scoperta è stata frutto del caso, più che del lavoro meticoloso di raccolta dei dati di un singolo? Oltre alla valanga dei dati, la scienza si apre a un nuovo modo di procedere ed è destinata a essere legata sempre più al lavoro di molti e non al destino di un singolo, diventando sempre più collaborativa.

[Tweet “#Popper Chi ha paura della società aperta?”]

Potere e partecipazione

Se la storia è un continuo processo di integrazione con l’altro e di superamento di limiti e valori, oggi assistiamo a un mescolamento di codici linguistici e di comportamento. Dal grande al piccolo schermo dello smartphone, si moltiplicano i contenuti, le opzioni di scelta e le identità, con oscillazioni pericolose, o quantomeno imprevedibili, tra il pluralismo e le visioni totalizzanti, il sogno della permanenza e quello dell’oblio, il potere e la partecipazione, la cronaca in tempo reale e vita in diretta, il rapido consumo delle immagini e delle notizie e la conoscenza critica, il desiderio bulimico di soddisfare nuovi bisogni e la crescita di gruppi e comunità con connotati sempre più tribali.

Omologazione e velocità

Il concetto di cittadinanza globale sta cedendo terreno a quello di “clandestinità”. Dopo la globalizzazione dei capitali e delle merci, il villaggio aperto si sta richiudendo su se stesso sotto il suo stesso peso. Così pur capaci di integrare sistemi, apparati e strumenti, non riusciamo a integrare le persone. Anzi, davanti alla sfida dell’integrazione, siamo solo capaci di dare la risposta più facile, quella dell’espulsione dell’altro. Come parte della tribù dominante ci interessa solo chi è uguale a noi.

Il paradosso della tolleranza

Secondo Popper, se estendiamo la tolleranza illimitata anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi. Ma se la guerra contro gli intolleranti è legittima, come legittimo sarebbe non porgere l’altra guancia a chi minaccia la nostra esistenza, allora non sarebbe altrettanto opportuno interrogarsi sulle responsabilità che hanno determinato quei fatti? Oppure dobbiamo considerare solo il fenomeno, rinunciando alla pretesa di conoscerne le cause?

Mettere insieme le differenze

Nella società aperta, la diversità è considerata un valore. L’incontro tra popoli differenti è un mutuo arricchimento. I confini non possono limitare il diritto alla mobilità e alla giustizia sociale. Anche a chi si occupa di innovazione tecnologica e imprese spetta il compito di contribuire al dibattito su questi temi per la promozione di leggi nazionali ed europee sull’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, per favorire il dialogo politico e la protezione degli stranieri, per affrontare la tragedia dei profughi, costruendo ponti che uniscono e non nuovi muri che dividono. L’innovazione può accelerare il processo di inserimento e di integrazione nel paese di accoglienza. La tecnologia è empowering: serve a ridurre le differenze che creano squilibrio, per creare un futuro per chi vuole restare e un’occasione per chi vuole andare via.

[Tweet “Nell’era #BigData Qual è la lezione di #Popper?”]

L’innovazione che nasce dall’incontro con l’altro

Nel mondo, ci sono oltre 43 milioni di persone in fuga da conflitti, violazioni dei diritti umani, guerre e persecuzioni. In Italia, ci sono circa 55mila rifugiati. I minori non accompagnati sono più di quattromila e i cittadini stranieri residenti quasi cinque milioni. L’Europa meticcia spaventa e la paura divide. Siamo tutti “stranieri” o “diversi” agli occhi degli altri. L’innovazione nasce dall’incontro e anche dallo scontro con l’altro. L’immigrazione è un tema controverso che richiede un’attenta riflessione sul passato. Respingere chi chiede di essere accolto, forse significa rinunciare anche a un pezzo del nostro futuro. Non si può affrontare il tema dei migranti senza porsi il problema delle cause e rimuovendo le cause della povertà. Nessuno squilibrio può resistere per sempre.

La lezione di Popper

Anche se non possiamo fare previsioni sullo sviluppo della società e della storia, nonostante tutto Popper rimane un empirista legato al dato di realtà anche quando la falsificazione di una tesi non ci dice come “stanno le cose”, ma ci persuade che non stanno come credevamo. L’Essere “ci parla”, non “si mostra”, ha il senso di un messaggio che dobbiamo ascoltare, interpretare, condividere. Nessuno conosce il futuro (neppure gli scienziati). Ma il mondo è quello che ne facciamo, ogni giorno nelle scelte che compiamo, nelle decisioni che prendiamo. E sta qui la vera lezione di Popper. La filosofia insegna ad agire, non a parlare. Se la conoscenza umana non ha fondamenti certi, è soprattutto ai problemi e al tentativo di risolverli che dobbiamo guardare. L’attualità di Popper, più che epistemologica è innanzitutto politica. Per Popper, non esistono verità assolute, esiste solo la ricerca della verità, che poi è il senso dell’esistenza. Perché tutta la vita è risolvere problemi.