La crisi che ha travolto l’economia globale non ha lasciato indenne il mondo dell’advertising. Gli investimenti si riducono e il mercato si trasforma. Televisione, radio e carta stampata sono ancora i mezzi preferiti ma i nuovi media, Internet in particolare, stanno avanzando prepotentemente. In questo scenario di grandi mutamenti come si muovono le aziende? Hanno compreso il cambiamento?

Ne ho parlato con  Paolo Iabichino, uno dei massimi esperti italiani di advertising, Executive Creative Director di OgilvyOne e OgilvyAction Italia, le agenzie del Gruppo Ogilvy specializzate nel digital e one-to-one marketing, e nel consumer & trade activation.

Iniziamo con una domanda provocatoria.

I soldi sono finiti o si sono solo spostati dai media tradizionali ai nuovi media?

Non sono particolarmente affezionato alla distinzione tra media tradizionali e nuovi media, quello che si sta verificando sempre più, soprattutto all’estero, è una contaminazione molto forte tra i diversi media che in questo momento sono a disposizione delle persone. Anche se è vero che se manteniamo ancora per buona questa distinzione tra i generi (che personalmente però non condivido), sicuramente l’investimento nei media tradizionali (quindi in quelle che sono le televisioni, le carte stampate e le affissioni) ha subito in tutto il mondo e sta registrando anche in Italia una flessione abbastanza importante. In generale non è vero che i soldi sono finiti, s’investe meno ma sempre, per fortuna, in comunicazione. Inoltre, buona parte degli investimenti che sono stati tolti ai media tradizionali si è spostata verso i nuovi media.  Gli investimenti su Internet per fortuna crescono in maniera importante e i social network in questa fase primeggiano, è anche vero però che c’è una quota parte di investimenti che non sta né sui media tradizionali, né suoi nuovi media che i classici report fanno fatica a intercettare.

Gran parte di questi investimenti, laddove si agisce su attività di tipo esperienziale (che sia all’interno di un punto vendita piuttosto che sul territorio), sono a tutti gli effetti delle attività mediatiche e di pubblicità. Tuttavia, stando a quanto io vedo, queste famigerate classifiche e questa nota distinzione tra ciò che è tradizionale e ciò che è un nuovo media, non  prende in considerazione, per esempio, un’attività sul territorio o sul punto vendita che è altrettanto importante e forse ancora più importante per certi versi, perché mette in contatto direttamente il brand con le persone che la scelgono, quindi, una parte degli investimenti si è spostata in maniera importante. OgilvyAction e il successo di quest’agenzia negli ultimi tempi ne sono una prova.

Riassumendo, c’è uno spostamento d’investimenti, non sono finiti i soldi, sono meno, ma quello che non è più investito nel settore dei media cosiddetto “tradizionale”, viene sempre più impiegato in altre forme di comunicazione.

Torniamo al disappunto iniziale sulla distinzione tra media tradizionali e nuovi media. Spesso questi ultimi sono ancora tutti da scoprire. Cosa ne pensi?

Lavorando con clienti spesso internazionali in un’agenzia che si occupa di nuovi media, nata più di vent’anni fa, è un po’ più difficile pensare a Internet come un nuovo media. Anche se ovviamente siamo consapevoli che c’è tutta una parte del tessuto produttivo di questo Paese che deve ancora scoprire questi mezzi; essi sono oramai troppo nuovi per loro mentre non lo sono per niente per il mercato. Questo ci penalizza perché nel momento in cui continuiamo a considerare Internet come un nuovo media, impediamo in realtà al nostro mestiere di fare quel passaggio che oggi è più che mai obbligatorio. Considerare Internet un nuovo media costringe un po’ tutti gli attori della filiera a tenere separate le attività di comunicazione che si muovono verso la televisione da quelle che si muovono nel digital display piuttosto che all’interno dei social network, ciò porta le aziende a disegnare delle strategie di marketing, e di conseguenza delle attività di comunicazione, un po’ miopi. In realtà se noi imparassimo a fare televisione in maniera digitale non avremmo questo tipo di problema. Se andassimo in televisione in una modalità totalmente rinnovata, non restando ancorati a questi fatidici trenta secondi in cui dobbiamo assolutamente comunicare tutto quello che c’è dentro i nostri brief, riusciremmo a cogliere una vocazione all’innovazione che i nuovi media ci costringono già in qualche modo a praticare. Al di là del mezzo, è cambiato il modo in cui si deve interagire con il cliente finale che non è più il broadcast, ma l’interazione.

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I nuovi media hanno la grande responsabilità di averci consegnato degli individui (per convenzione “consumatori”) ai quali non possiamo più parlare in una modalità mainstream come eravamo abituati a fare fino a un po’ di tempo fa. Questa è la grande lezione che ci arriva dai nuovi media ed è la stessa che  si deve portare nel mainstream, ovvero nella televisione e viceversa. Dentro Internet si deve portare la cultura di comunicazione, di storytelling, di spettacolarizzazione, di coinvolgimento che non ha mai avuto. Se pensiamo, infatti, che fare advertising su Internet sia riempire i portali di banner, è evidente che stiamo ragionando in una logica televisiva. E’ plausibile che continueremo a farlo perché il mercato è ancora trainato da queste forme di comunicazione, ma in questo momento più che mai è necessario interrogarsi su quale debba essere il nuovo atteggiamento da applicare per realizzare un dialogo, cambiando i propri modelli di business e puntando alla co-creazione e alla partecipazione.

Possiamo dire, quindi, che l’azienda che non si adegua a questo cambiamento ha perso? E se sì, quali sono, in questo senso, le aziende, secondo te, più rappresentative, sia in positivo sia in negativo?

Vanno osservate tutte quelle marche che sono state capaci di trasformare il loro modo di stare sul mercato fuori dai loro power point.

Basti pensare a cosa faceva IBM dieci anni fa e come si mette invece sul mercato oggi. Noi, in Ogilvy, la chiamiamo “brand transformation”. E’ quello che fanno le marche che trasformano il proprio modello di business in funzione di quelli che sono i macro-scenari culturali ed economici. Se pensiamo a Unilever e a come ha cambiato il posizionamento di Dove negli ultimi dieci anni, è una delle case history più esemplari. D’altronde si studia nelle università la case history della bellezza autentica, che sembra essere una case history di comunicazione, ma in realtà racconta un posizionamento di marca un po’ più profondo invece del solo spot virale stra-premiato o delle pubblicità della bellezza autentica. Ad esempio, quando hanno creato l’anti-age, l’hanno chiamato pro-age. Ciò dimostra che si sono messi in relazione davvero in modo nuovo e inedito con le persone che avevano di fronte.

Tra i casi positivi c’è anche l’American Express; un caso abbastanza importante. E’ riuscita a modificare il percepito di una semplice carta di credito in un oggetto transnazionale che apre un mondo di servizi e benefici a vantaggio dei titolari. Il caso dell’uso di Twitter di American Express negli Stati Uniti è oggi una case history a cui tutti guardiamo per capire come devono essere usati questi media.

Per quanto riguarda i casi negativi, pur senza far nomi, posso dire che sto assistendo a un utilizzo veramente scellerato dei social network e dei canali digitali, perché ancora non sono giunti a maturità. Puntare a Facebook in una logica di quantità, in cui vince chi ha più fan, infatti, non va più bene. Se non usciamo da questa logica quantitativa e non puntiamo su una qualitativa che si base sulla “bontà” della relazione e non ci rendiamo conto che su Facebook valgono più 100.000 fan ingaggiati in un certo modo che diventano parte del racconto della marca e ne contribuiscono alla storia, che 150.000 usati come banner per lanciare segnali altrove, allora non riusciremo mai, secondo me, a fare questo passaggio cui aspiriamo.

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Il ROI, potrebbe essere un modo per misurare la qualità di una campagna sui social media?

Sì, secondo me sì, in questo momento le tecnologie a disposizione ci aiutano a implementare nuove metriche. Adesso, noi abbiamo davvero tutti gli strumenti per valutare e darci dei kpi finalmente sensati sulle campagne che vanno in circolazione in questo periodo e per ragionare con i nostri clienti su un ritorno dell’investimento, come si faceva una volta con l’advertising tradizionale. Non capisco perché ci impediamo, infatti, di pensare che anche i media digitali partecipino alla costruzione di un’equity e ci costringiamo a immaginarli sempre, invece, in una logica quantitativa. Il segreto, lo ripeto, è proprio questo, uscire dalla logica quantitativa ed entrare in quella qualitativa che l’advertising tradizionale ha sempre avuto.

Quanto si misura il ritorno dell’investimento di uno spot di trenta secondi? I criteri di valutazione sono diversi rispetto a delle azioni dirette. E’ ovvio che questo impatta anche sulle vendite, ma nel frattempo si migliorano anche altri valori: si misurano le equity, gli aware, ecc. Ecco, con i media digitali questo sistema è ancora un tabù, purtroppo.

Ciò accade solo in Italia o anche fuori?

In Italia, da questo punto di vista, siamo a livelli di analfabetismo, perché non c’è neppure la voglia di provare a vedere se esiste un livello qualitativo da prendere in considerazione per le campagne banner piuttosto che le DEM, che non sia semplicemente quello del veder quante persone vanno ad agire con un determinato comportamento. Tra l’altro sempre di più questi strumenti (i nuovi media e social network, ndr) contribuiranno e stanno già contribuendo alla rivalutazione di una marca. Se solo pensiamo a quanto si forma la reputazione di una marca attraverso le conversazioni in rete e quello che accade sui social network.

Ad esempio, pensiamo all’occasione pazzesca che ha perduto Costa Crociere quando, subito dopo l’incidente della Concordia, la sua pagina Facebook si è affollata di messaggi di solidarietà dei croceristi. Questo ancora prima che venisse fuori il caso Schettino e quindi proprio nei minuti immediatamente successivi alla tragedia. Alcuni croceristi affezionati con i loro messaggi stavano in qualche modo proteggendo questa marca e spontaneamente queste persone facevano da scudo. Lì è mancato da parte del brand (comprensibilmente perché in quei momenti è veramente difficile essere lucidi) il sangue freddo per poter sfruttare positivamente quello che stava accadendo e salvando in qualche modo la reputazione della marca.

Siamo in un momento di crisi mondiale. L’economia della conoscenza può essere il nostro futuro? Se sì, cosa dobbiamo fare per arrivarci presto e preparati al meglio?

Nel nostro Paese c’è anche un certo pessimismo di maniera, bisogna dirlo.  Io sto vedendo e intercettando però dei rumori di fondo che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, secondo me, potrebbero aiutare molto lo sviluppo del Paese. Queste onde continue che stiamo registrando di giovane imprenditoria, di centinaia di start up che in qualche modo stanno provando nuove strade, forse potrebbero riservarci delle sorprese importarti. E credo che i nostri politici, dovrebbero preoccuparsi finalmente delle infrastrutture, che poi sono il tema principale dell’Agenda Digitale che ormai è diventato obbligatorio.

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Seppur con ritardo, anche l’Italia dovrà inevitabilmente affrontare queste dinamiche e questi temi. L’economia della conoscenza, infatti, costringe un po’ tutti a dei coefficienti di trasparenza e autenticità che sono un condicio sine qua non per fare mercato nell’economia della conoscenza. Il tuo mercato deve essere aperto e dialogare continuamente con l’esterno. Finché non accadrà questo switch nella testa della nostra classe dirigente, ivi compresa quella politica e non solo quella che è a comando delle grandi corporation, possiamo parlare di agenda digitale per altri vent’anni ma sarà tutto inutile. Se non permettiamo ai cittadini, consumatori, di diventare parte in causa delle nostre attività di comunicazione, politiche, civiche, se non permettiamo veramente quella partecipazione che andiamo pontificando, allora non accadrà assolutamente niente. Sarà il solito raffazzonare, provare delle tensioni, tenerle insieme senza che ci sia realmente una presa di coscienza politica, economica, culturale, di quanto le persone siano oggi capitale da poter impiegare in maniera importante. Per esempio, in politica continuiamo a parlare di Smart Cities, ma poi le nostre amministrazioni sono chiuse come baluardi assolutamente inavvicinabili. Un progetto interessante, secondo me, come WikiItalia che è progetto di partecipazione collettiva, civile, ecc., fatica ad attecchire.

Ciò che mi fa veramente rabbia è che le persone sono pronte, così come le nuove generazioni e la nuova classe dirigente, ma  mancano ancora le occasioni o ci manca un decision maker abbastanza forte che ci dia il semaforo verde per sperimentare. In questo campo non c’è letteratura, dobbiamo fare dei tentativi, dobbiamo sperimentare. E’ comprensibile, quindi, che ci siano delle resistenze laddove ci sono degli investimenti in ballo, però se non si comincia, non sapremo mai chi ha ragione e chi ha torto e staremo ancora qui a parlare di media tradizionali e nuovi media per altri dieci anni.

 

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Paolo Iabichino è Executive Creative Director di OgilvyOne e OgilvyAction Italia, le agenzie del Gruppo Ogilvy specializzate nel digital e one-to-one marketing, e nel consumer & trade activation. 
Con il suo team gestisce campagne e strategie di comunicazione per importanti marche italiane e internazionali ed è convinto che la pubblicità non abbia più bisogno di un target, ma di un interlocutore con il quale marche e prodotti devono mettersi in relazione, superando la logica del bisogno per sposare l’etica del servizio.

Docente di un master post laurea di advertising presso la Scuola Politecnica di Design di Milano, Paolo Iabichino è anche autore di Invertising, un saggio edito da Guerini & Associati che analizza le trasformazioni in atto nel mondo dell’advertising. Il saggio è giunto alla terza ristampa, è adottato da numerose facoltà universitarie ed è oggetto di diverse tesi di laurea. Il tema è stato per 2 anni un corso di pubblicità presso l’Istituto Europeo di Design di Milano (IED) per formare art director e copywriter nel passaggio “dall’advertising all’invertising”, e dal 2010 è diventato un blog di Wired.it

Due volte giurato al Festival di Cannes, membro dell’Art Directors Club Italiano, Paolo Iabichino fa inoltre parte del Comitato Scientifico dell’Osservatorio Storytelling dell’Università di Pavia ed è spesso chiamato all’interno di master, eventi, seminari e workshop che affrontano le evoluzioni nell’ambito della pubblicità, dei media e della comunicazione in genere.