Una ricerca mondiale senza precedenti ha portato alla scoperta di un gene che protegge dall’ictus, in particolare i giovani e gli adulti di mezza età

La straordinaria scoperta, diffusa dalla rivista Nature Genetics, è frutto di una collaborazione internazionale condotta da esperti della Royal Holloway, University of London, che ha visto anche la partecipazione di numerosi centri italiani tra cui l’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, l’Ospedale Gerardo di Milano, l’Università di Perugia – Ospedale Santa Maria della Misericordia.

Un gene che protegge l’arteria cervicale

Il gene in questione è stato battezzato PHACTR1 e svolge un’azione protettiva sull’arteria cervicale, un vaso che trasporta ossigeno al cervello. Se le pareti di quest’importante arteria subiscono dei danni, si può verificare un’occlusione del vaso che può condurre all’ictus. Un rischio rischio può essere diminuito del 20% semplicemente mangiando frutta e verdura o assumendo delle miracolose “pilllole al cioccolato”, stando ai risultati di altre recenti ricerche.

Mettendo a confronto il Dna di 1400 pazienti che hanno subito questo danno vascolare con quelli di 14.400 soggetti sani di controllo, gli studiosi hanno individuato che una particolare versione di questo gene protegge l’arteria da questo danno, definito ‘dissezione’, che rappresenta una delle principali cause di ictus in età giovanile.
Si tratta di una scoperta i cui sviluppi potrebbero essere preziosi soprattutto in quanto questo gene, già correlato ad altri problemi come l’emicrania, potrebbe essere la chiave per la prevenzione.
Non dimentichiamo che di recente la tecnologia ha fatto molto anche per arginare le conseguenze degli attacchi: dallo speciale collare hi-tech per limitare i danni al cervello fino allo speciale chip che, impiantato sotto pelle, rivela eventuali anomalie del battito cardiaco, che potrebbero portare ad un ischemia cerebrale. Infine, curare i pazienti colpiti da ictus o con dei sintomi in atto utilizzando anche la telemedicina non è più solo un’ipotesi remota ma una realtà all’ospedale Umberto I di Roma. 

 

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