Automazione, integrazione e sicurezza al centro della strategia aziendale. Nel faticoso cammino verso un multicloud se non proprio interoperabile almeno governato, la sfida di trasformare il cloud computing così come lo conosciamo oggi in una singola piattaforma

Gestire i dati senza la necessità di spostarli da un servizio all’altro, separando di fatto i concetti di elaborazione e storage è l’idea semplice ma potente, nello stile del colosso di Mountain View. Un cambio di paradigma che apre alla prospettiva di pensare alle risorse in cloud in modo olistico e flessibile. La presentazione da parte di Google di BigQuery Omni ha tutte le carte in regola per sparigliare il mercato delle console di gestione cloud. Secondo i dati IDC, la spesa mondiale in servizi public cloud, ha raggiunto un valore complessivo nel 2020 pari a circa 285 miliardi di euro, con un tasso di crescita superiore al 16% rispetto al 2019 e un tasso di crescita medio annuo atteso per il periodo 2019-2024 pari al 19%.

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«A livello europeo – spiega Sergio Patano, associate research director di IDC Italia – il mercato è previsto atterrare su una cifra di poco superiore ai 53 miliardi di euro, grazie a una crescita sul 2019 pari al 15,4%. Con un CAGR previsto nel periodo 2019/24 pari al 19,5% circa, leggermente superiore alla media mondiale». Per quanto riguarda il mercato del private cloud, IDC considera soprattutto la spesa infrastrutturale composta dalla spesa in compute platform, ethernet switch e storage platform. «Un segmento – prosegue Patano – che registra a livello mondiale un tasso di crescita dell’1,8% rispetto al 2019 per un valore complessivo per il 2020 pari a 122 miliardi di euro. Per il mercato europeo, IDC prevede invece una contrazione di -4,6%, passando da 19,4 miliardi nel 2019 a 18,4 nel 2020. Nel lungo periodo, per i due mercati è previsto rispettivamente una CAGR 2019-2024 del 5,4% (WW) e dell’1,2% (Western Europe)».

Per quanto riguarda l’Italia – l’Osservatorio Cloud Transformation del Politecnico di Milano stima che raggiungerà nel 2020 i 3,34 miliardi di euro, con una crescita del 21% rispetto all’anno precedente. In particolare, il mercato public & hybrid cloud, con un giro d’affari complessivo di 2 miliardi di euro, registra un +30% rispetto al 2019 trainato dalla componente SaaS che registra una crescita di +46% anno su anno e oltre un miliardo di euro di spesa complessiva. Numeri in crescita insperata, che segnano un cambiamento sensibile rispetto al passato. Sostenuti da una vera e propria esplosione di tutte quelle categorie di servizi – strumenti di collaboration, gestione documentale, software di project management e agile, portali e-commerce, office automation, posta elettronica, PEC compresa – che hanno consentito alle aziende di restare operative anche durante i mesi più duri della crisi sanitaria. La seconda discontinuità rispetto al passato è che la migrazione verso il cloud durante i mesi dell’emergenza sanitaria, ha interessato massivamente anche le PMI. Anche quelle più scettiche e meno digitalizzate – afferma il direttore dell’Osservatorio Alessandro Piva, presentando i dati della ricerca annuale – hanno intrapreso iniziative cloud per supportare la produttività e la collaborazione tra i dipendenti. Iniziative, volte in primo luogo a non interrompere del tutto le attività – e dunque, dettate dalla contingenza – che però hanno fatto sì che le PMI si muovessero sul mercato con tassi di crescita nella spesa in public e hybrid cloud di gran lunga superiori rispetto al passato, toccando + 39% rispetto al 2019. Un incremento che non sposta di molto la ripartizione del volume di investimenti rispetto alle grandi imprese (11% contro l’89% rappresentato da queste ultime) ma che tuttavia – sottolinea l’Osservatorio – rappresenta un dato significativo in Italia, dove il solco tra il livello di digitalizzazione delle grandi e medio-grandi imprese e quello delle PMI rappresenta da sempre un problema serio per lo sviluppo del Paese.

IN ORDINE SPARSO VERSO IL MULTICLOUD

ll multicloud – inteso come adozione simultanea da cloud provider differenti di servizi d’infrastruttura (IaaS), di piattaforma (PaaS) o software (SaaS), oppure più provider per lo stesso servizio – è un fenomeno in rapida espansione. Nel 2019, IDC stimava che quasi quattro aziende su dieci avevano nel corso dell’anno acquistato almeno trenta servizi cloud diversi, da circa una quindicina di fornitori. Una tendenza confermata anche dai dati presentati dall’Osservatorio secondo cui il 74% delle imprese integra i servizi IaaS, PaaS e SaaS con i sistemi interni all’azienda in un ambiente di hybrid cloud. «L’adozione di un modello di erogazione di servizi basato sul multicloud – spiega Patano di IDC – non risponde alle esigenze di un particolare settore verticale ma è trasversale in quanto va a rispondere alle stesse esigenze cui risponde il cloud pubblico, per certi versi amplificandone i benefici».

Le survey IDC evidenziano l’esistenza di alcune leggere differenze tra i driver che guidano le aziende verso il multicloud rispetto agli altri modelli di deployment. «Gli adopter del multicloud si attendono di raggiungere un maggior livello di agilità nell’implementazione di nuove soluzioni e servizi necessarie per rispondere alle richieste di un mercato in continua evoluzione. Aspettativa condivisa con gli utenti del cloud pubblico singolo» – continua Patano. «Al secondo posto, i CIO intervistati puntano a un maggiore controllo verso le altre linee di business. Questo grazie all’unico pannello di controllo che è uno dei prerequisiti fondamentali per la creazione di un ambiente di cloud multiplo secondo la tassonomia IDC. Sul gradino più basso del podio invece troviamo il miglioramento della sicurezza, da intendersi non solo come protezione dagli attacchi esterni ma anche e soprattutto come possibilità di accedere a soluzioni di disaster recovery/business continuity/high availability altrimenti non raggiungibili».

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Il principale freno all’espansione rimane la complessità generata da un sistema informativo di questo tipo. «Il consolidamento delle strategie hybrid e multicloud – come afferma Stefano Mainetti, responsabile scientifico dell’Osservatorio Cloud Transformation del Politecnico di Milano – richiede alle aziende di strutturarsi, lato orchestrazione, per ottenere visibilità e controllo, e dotarsi di flessibilità architetturale e tecnologica per sfruttare questi ambienti in modo dinamico. Secondo i dati dell’Osservatorio, il 54% delle aziende dichiara di aver adottato almeno uno strumento di orchestrazione cloud, un dato dal quale emerge altresì come al tema tecnologico si affianca l’importanza della gestione dei costi, la cui variabilità nel cloud è foriera di difficoltà in termini di gestione e previsione.

Sebbene cloud ibridi e multicloud possano essere utilizzati insieme non sono la stessa cosa. In un sistema multicloud, le aziende eseguono applicazioni e archiviano dati su più provider cloud. I carichi di lavoro vengono distribuiti per ridurre il rischio che un servizio acquistato in cloud si interrompa trascinando al fermo i sistemi aziendali. Il multicloud permette alle organizzazioni di accedere ad applicazioni e servizi a condizioni più favorevoli. Nel multicloud, l’integrazione tra i vari cloud non è richiesta. Mentre si parla di un ambiente cloud ibrido, quando applicazioni e dati sono allocati in più posizioni: un mix di cloud pubblici e/o privati ​​e un’infrastruttura on-premise. Prima di approdare al multicloud l’organizzazione ha iniziato un processo di migrazione verso il cloud. Portare in cloud i primi workload deve essere semplice. Privo di rischi. Inoltre dovrebbe essere garantita l’interoperabilità efficace. Il provider dovrebbe agevolare la migrazione, non complicarla. Fare in modo che il cliente compia questo percorso di trasformazione una volta sola e sia poi in grado di movimentare i suoi workload da un provider all’altro, da un cloud all’on-premise e viceversa, senza ulteriori complessità. Il secondo passaggio è la scelta del layer di orchestrazione. L’ambiente open o proprietario che – una volta fatto lo sforzo di modernizzazione – è in grado di gestire le applicazioni e muoverle on-prem e in cloud. Il passo successivo è il multicloud, il punto d’approdo verso cui tendere in questo momento. Troppe aziende però faticano a garantire la piena interoperabilità degli ambienti perdendo per strada una parte importante dei benefici della migrazione. Utilizzare i servizi di più di un cloud provider non comporta automaticamente la capacità di integrare tra loro dati sparsi tra più cloud. Fare cioè in modo che dati e applicazioni siano condivisi e interoperabili. Secondo una recente indagine globale condotta da IDC solo il 45% delle aziende  multicloud ha raggiunto un livello di interoperabilità avanzato tra i servizi cloud che compongono l’ambiente multicloud. Principalmente in ragione dei costi e delle complessità nel creare interoperabilità in un ambiente multicloud.

STRUMENTI PER GESTIRE I CLOUD

Poter scegliere tra più cloud pubblici significa accedere alle migliori tecnologie (il cosiddetto best-of-breed) e/o ridurre i costi. Ma per sfruttare al meglio l’offerta dei cloud provider serve uno strumento centralizzato per gestire i vari cloud. Altrimenti, ci saranno silos di workload e di dati che finiranno per riprodurre gli stessi problemi dei data center legacy. «Sul mercato mancano gli strumenti per sfruttare pienamente le potenzialità di hybrid e multicloud» – afferma Emanuele Briganti, CEO di ReeVo MSP.

«La maggior parte delle imprese gestisce in modo manuale gli ambienti cloud in uso, avvalendosi degli strumenti nativi dei propri provider. Così però si perdono visibilità e spazi d’azione sul sistema IT nel suo complesso». Automazione, integrazione, sicurezza, governance sono le quattro leve principali per costruire la suite ideale di orchestrazione in ambienti hybrid e multicloud. «Una architettura che consente di abbandonare la classica gestione a silos, superare la gestione manuale e incrementare l’efficienza di ambienti IT complessi. Una orchestrazione con queste componenti consente di governare tale complessità in modo strategico». Un approdo ancora lontano per le tante aziende che non dispongono di una infrastruttura sufficientemente matura per realizzare questo obiettivo in modo efficace e autonomo.

Per questo, è fondamentale – come conferma Alessio Di Benedetto, senior regional presales manager, South EMEA di Veeam Software – «l’adozione di strumenti di monitoraggio e di analisi che forniscano una visibilità in tempo reale della posizione e permettano un controllo dei dati semplificando la gestione tramite processi di automazione, così da ridurre i rischi legati all’operatività manuale». Gli sforzi di vendor IT e fornitori di servizi cloud si stanno moltiplicando in questa direzione. Ed è probabile – come prevede Mariano Corso dell’Osservatorio Cloud del Politecnico di Milano – che nei prossimi 24-36 mesi, la maggior parte delle organizzazioni opererà se non in veri e propri cloud ibridi, almeno in ambienti multicloud con un livello di interoperabilità significativo.

MULTICLOUD O MAL DI CLOUD?

Durante l’ultima edizione di Next On Air, Google ha annunciato alcune novità dedicate al mondo del cloud pubblico. In particolare, BigQueri Omni ha catturato subito l’attenzione di chi lavora “sulla nuvola”. La soluzione, ideata per migliorare l’esperienza multicloud, sembrerebbe avere tutte le carte in regola per dare una potente spallata al mercato delle console di gestione del cloud. La promessa di BigQuery Omni? Risolvere i problemi di chi utilizza più servizi in cloud ed è costretto a lavorare con dati sparsi fra AWS, Azure e naturalmente Google Cloud. Gestire i dati senza la necessità di spostarli da un servizio all’altro, con risparmi sensibili di tempo e denaro, separando di fatto i concetti di elaborazione e storage. L’idea semplice ma potente, nello stile del colosso di Mountain View, di trasformare il multicloud computing in una singola piattaforma. Un cambio di paradigma, frutto della leadership di Google nel settore, che apre alla sin qui solo auspicata idea di poter pensare alle risorse in cloud in modo olistico e flessibile. Come reagirà il mercato? Quali problematiche per gli utilizzatori rimarranno comunque sul tappeto?

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SPOSTAMENTO DEI DATI

Per i clienti, spostare i dati attraverso diversi cloud è al tempo stesso complicato e costoso – ha ammesso Debanjan Saha, general manager e vice president of Engineering di Google Cloud. Un problema acutizzatosi nel tempo. I continui investimenti nel multicloud vanno proprio in direzione del tentativo di democratizzare per i clienti Google l’accesso alle migliori tecnologie, indipendentemente dal fornitore di cloud al quale si rivolgono. Chi utilizza più servizi in cloud può trovarsi costretto a lavorare con dati sparsi fra AWS, Google Cloud ed Azure, solo per citare le piattaforme più note. In che misura è possibile oggi gestire i dati senza doverli spostare da un servizio all’altro, separare cioè l’elaborazione dallo storage?

«La dispersione dei dati e delle applicazioni può generare una difficoltà nella gestione e nella visione olistica dei dati» – concorda Fabio Pascali, country manager di Veritas Technologies Italy. Servono dunque soluzioni che offrano la possibilità di creare un livello di astrazione che renda più trasparente la locazione del dato, on premise e in cloud. «Se poi la stessa soluzione – continua Pascali –  fornisce metodi semplici per muovere i dati in un contesto ibrido, creare soluzioni di business continuity e disaster recovery fra più cloud, di sicuro abilita scenari molto interessanti». Per trattare i dati, indipendentemente dalla piattaforma, servono soluzioni indipendenti in grado di fornire un layer comune di gestione, osserva Gianluigi Citterio, head of technology presales del Gruppo Lutech: «Uno strato, che assicuri omogeneità di comunicazione fra le varie piattaforme cloud, offrendo al contempo visibilità, automazione, governance, collaborazione e integrazione dei servizi in base alle esigenze di business del cliente».

ACCESSO AI DATI

Con la crescente diffusione di nuovi modelli ibridi e multicloud, la disponibilità di un accesso agile e flessibile ai dati diventa dunque centrale per le aziende. «I dati devono essere raggiungibili ovunque e facilmente, qualunque sia il loro formato» – spiega Gabriele Obino, regional VP Southern Europe & Middle East di Denodo. «Per questo è importante definire un modo nuovo di gestire i dati, incentrato sulla loro semantica e interconnessione (approccio logico) anziché sulla loro copia o replica (approccio fisico). Una metodologia in grado di assicurare una governance centralizzata e al contempo di fare da schermo tra le richieste del business e la crescente complessità tecnica del dato». La risposta è la containerizzazione? La decisione di migrare sul cloud – osserva Fabio Grassini, sales director Mid Market di Red Hat Italia – senza legarsi solo a uno dei cloud provider è un elemento centrale nel percorso di digital transformation. «Con la containerizzazione le aziende hanno il vantaggio di poter lavorare in continuità, indipendentemente dai workload dei diversi cloud».

Almeno per quanto riguarda i dati, già oggi l’offerta promette di trasformare il multicloud in una singola piattaforma, gestendo le risorse in cloud in modo olistico. «In uno scenario multicloud, i dati geograficamente distribuiti possono muoversi da un punto all’altro» – afferma Obino di Denodo. «L’onere di gestire questa fluidità però non può essere fatto ricadere su chi utilizza tali dati, ma deve riguardare le soluzioni che devono essere in grado di assorbirlo. La data virtualization consente tale gestione, perché realizza un punto unico di accesso ai dati, che garantisce agli utilizzatori la consapevolezza su ciò che è disponibile».

Per mantenere la massima eterogeneità, che rappresenta un valore in un ambiente multicloud, è fondamentale poter contare su una gestione olistica delle risorse. Ed è possibile – rileva Citterio di Gruppo Lutech – se si sceglie un layer comune capace di dialogare con tutti gli hyperscaler, diversi per natura e per strategia. «Le soluzioni software defined, per esempio, astraendo il software dall’hardware possono garantire la cloud mobility dei dati tra i diversi ambienti, ponendo il livello di governo al di sopra del singolo hyperscaler». Gli ostacoli sono di tipo commerciale e culturale più che tecnologici. Per Mirko Menecali, partner e Alliance manager di Sinfo One – «un ambiente cloud è anche un ecosistema che richiede competenze verticali da parte dei tecnici. Un elemento di fidelizzazione dei clienti, che è testimoniato dagli investimenti messi in campo per far acquisire agli utilizzatori le competenze verticali necessarie a far funzionare gli ecosistemi o a implementare i prodotti di ultima generazione. È improbabile – continua Menecali – che i diversi provider investano su una standardizzazione dei prodotti per favorire una operatività multicloud. È però possibile che – in un futuro non prossimo, considerata la situazione del mercato – certi ecosistemi si impongano in modo prevalente per specifiche aree applicative, creando standard di fatto».

TRE PASSI VERSO IL MULTICLOUD

Il cloud è qui per restare. È vero però che rimangono da risolvere una serie di problemi. A partire dal percorso di adozione. In pratica, un “bene ma non benissimo”. Un bene da scaricare a terra, che nella realtà ha i suoi tempi di maturazione e progressione. In questo senso, la migrazione non può e non deve essere un’arrampicata estenuante irta di ostacoli. Al contrario, i vendor devono far sì che l’adozione del cloud sia sempre semplice, omogenea e trasparente. Le aziende sono alla ricerca di soluzioni cloud che gli garantiscano di non essere ancorati a un unico provider. Il fattore lock-in, in qualche modo intrinseco al modello di accesso al cloud, non deve servire da schermo alla possibilità di muoversi con la massima libertà verso tutte le soluzioni offerte dal mercato. Possibilità, che deve essere sempre garantita all’azienda. L’hybrid è la messa a terra del modello teorico del cloud, che deve tuttavia fare i conti con una semplice constatazione: quella che quasi sempre le aziende hanno un passato, fatto di data center in outsourcing o proprietari, architetture tecnologiche, applicazioni, competenze e organizzazione che semplicemente non vogliono perdere, e che anzi vogliono valorizzare. Perciò nessun dubbio: la progressiva migrazione al cloud continuerà a consolidarsi, attraverso lo spostamento progressivo di workload e applicazioni, e il mantenimento di altre funzionalità in casa per questioni di performance, aderenza alla normativa, controllo, e così via. È fondamentale continuare a lavorare incessantemente alla semplicità dell’utilizzo del cloud per tutte le organizzazioni, riducendo ogni tipo di rischi e garantendo al contempo l’interoperabilità efficace.

TRA EMERGENZA E CONSOLIDAMENTO

La situazione senza precedenti creata dall’emergenza sanitaria ha determinato una accelerazione sensibile nell’adozione al cloud da parte delle imprese. Come spiegato dal team di ricerca dell’Osservatorio Cloud Transformation del Politecnico di Milano, la situazione improvvisa e non programmata ha di fatto promosso il cloud al ruolo di partner più affidabile per rispondere con rapidità alle loro necessità. Un’alleanza che ha fatto crescere di parecchio la consapevolezza delle imprese sull’importanza del cloud come piattaforma tecnologica centrale nella trasformazione digitale. Naturalmente, ogni azienda deve costruire il proprio percorso, allineando le tecnologie disponibili in ambienti hybrid e multicloud alle proprie esigenze. Tuttavia, persino i più scettici si sono resi conto di non poter più rimandare l’adozione del cloud di fronte al passaggio obbligato dell’evoluzione dei sistemi informativi. Non può sfuggire in questo momento di forte discontinuità, che la risposta delle aziende – reattiva rispetto alle necessità dettate in prima battuta dal lockdown – rischia di rimanere isolata, senza prospettive, in mancanza di una visione di medio-lungo periodo. La sfida è dunque quella di riuscire a trasformare una risposta tattica in una strategia digitale compiuta. Un percorso tutt’altro che agevole da indirizzare e che presuppone il cambiamento del ruolo e del modello operativo della direzione IT, in un’ottica di trasformazione delle modalità di lavoro in direzione delle metodologie Agile e DevOps. Maturando al contempo, un giusto equilibrio tra competenze e responsabilità nei rapporti con i vendor cloud, attraverso lo sviluppo di processi e strumenti di governance di sistemi sempre più complessi.

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NFON CLOUDYA: LA RIVOLUZIONE DEL CENTRALINO TELEFONICO SUL CLOUD PER TUTTE LE AZIENDE

In un mondo sempre più connesso e condizionato dalla pandemia da COVID-19, la tecnologia ha dimostrato di aver contribuito ad accorciare la distanza tra le imprese e l’ecosistema nel quale operano e tra il business stesso e la vita privata delle persone. «Se all’interno delle aziende – spiega Marco Pasculli, managing director di NFON Italia – notiamo ancora alcune resistenze alla condivisione di percorsi, strategie, progetti, specie nel settore della PA, ciò è dovuto in molti casi alla difficoltà di avvalersi di strumenti e tecnologie che tendono a rendere difficile il contatto con le persone fuori sede e che spesso causano interruzioni ai servizi essenziali. In questo senso, il cloud ha largamente dimostrato di rappresentare la tecnologia vincente e in grado di risolvere il divide».

Il passaggio dall’ufficio al lavoro da casa ha aperto infatti la strada a numerosi aspetti di fondamentale importanza, quali quelli legati alla sicurezza e alla connettività, e le soluzioni di telefonia in cloud – come quelle di NFON – hanno dimostrato di fornire un valido aiuto sia alle organizzazioni che ai dipendenti. Disporre dei propri strumenti di lavoro sempre e ovunque, condividere documenti e informazioni in tempo reale, mettersi facilmente in contatto con il proprio network tramite servizi telefonici professionali – continua Pasculli – sono tutti aspetti che abilitano nuovi modelli organizzativi e una serie di vantaggi che si ripercuotono positivamente sulla produttività. «La soluzione di telefonia Cloudya di NFON nasce proprio per offrire una comunicazione aziendale affidabile e mantenerla attiva, efficace, stabile e sicura sempre, con un prezzo calcolato esattamente sulle esigenze del cliente. Basandosi sul cloud, Cloudya è un servizio estremamente semplice, si può utilizzare direttamente via browser e permette di essere raggiungibili ovunque al proprio numero aziendale e con qualità vocale HD. La piattaforma ha trasformato la telefonia aziendale in termini infrastrutturali e rivoluzionato i modelli stessi di tariffazione e contratto, dimostrandosi la soluzione ideale per tutte le aziende, indipendentemente da settore e dimensione».