Che brutta cosa invecchiare in azienda

Gli over 45 ricevono valutazioni più basse e fanno meno scatti di carriera a parità di inquadramento rispetto ai colleghi più giovani, secondo uno studio dell’Osservatorio Diversity Management Lab della SDA Bocconi

In Italia i dipendenti over 45 ricevono valutazioni inferiori e fanno meno scatti di carriera di quelli più giovani. Le valutazioni, dopo i 45 anni, diminuiscono mentre chi ottiene scatti non automatici ha mediamente 6-7 anni meno di chi non fa carriera. Politiche aziendali di questo genere rischiano di alienare una porzione crescente della popolazione aziendale e di compromettere la performance aziendale, ammonisce lo studio Engagement e carriera: il peso dell’età dell’Osservatorio Diversity Management Lab della SDA Bocconi, presentato questa mattina a Milano.

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“I trend demografici e l’evoluzione delle politiche sociali conducono a un inesorabile aumento della quota di over 45 nella popolazione aziendale”, ha evidenziato Adele Mapelli. La popolazione in età lavorativa è destinata a diminuire di almeno dieci punti percentuali nei prossimi cinquant’anni, mentre gli anziani saranno una volta e mezza quelli attuali. La scarsa natalità e le politiche sociali tese a prolungare l’età lavorativa favoriranno, inoltre, una maggiore concentrazione dei lavoratori nelle fasce di età superiori. Se le politiche aziendali non discriminassero i lavoratori anziani, l’invecchiamento della popolazione aziendale non sarebbe un problema, dal momento che le più recenti teorie e ricerche evidenziano che il declino cognitivo non può essere dimostrato prima dei 60 anni e non ha connotati significativi prima dei 74.

“In particolare”, ha affermato Chiara Paolino, “una rilevazione dell’Osservatorio su un campione di 1.000 lavoratori dimostra che gli indicatori predittivi della performance (comportamenti orientati al cambiamento, identificazione ed engagement) non segnalano differenze significative al variare dell’età, mentre crollano, dopo i 45 anni, la soddisfazione per le prassi aziendali legate all’età e la percezione del clima aziendale”.

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Una seconda, più ampia rilevazione dell’Osservatorio (su 58.000 dipendenti di tre grandi imprese) mostra che i lavoratori più anziani sono penalizzati in termini di valutazione della performance individuale. “A titolo esemplificativo”, ha spiegato Renata Trinca, “in una delle tre imprese la valutazione media di un impiegato al di sotto dei 30 anni è di 4,64, per chi ha superato i 50 anni è di 4,17 (-10%), mentre un funzionario intorno ai 30 anni riceve mediamente una valutazione del 14% superiore rispetto a un ultracinquantenne”.

Anche gli scatti di carriera non automatici mostrano lo stesso scenario. Gli impiegati che hanno avuto uno scatto di carriera non automatico negli ultimi cinque anni hanno in media 36,14 anni, quelli rimasti al palo ne hanno 44,51. Tra i quadri i più fortunati hanno 39 anni, gli altri 45,9.

Per evitare i problemi che una realtà di questo genere è destinata a comportare in futuro, “le imprese dovranno rivedere il modello di carriera attuale”, ha affermato Simona Cuomo. “Oggi la carriera è vista come un treno ad alta velocità, che porta a destinazione in tempi brevi solo chi lo prende al momento giusto, in futuro i percorsi di carriera dovranno essere più personalizzati e non potranno più essere focalizzati solo su alcuni target privilegiati, come accade oggi per i talenti tra i più giovani e i pochi knowledge owners (dipendenti chiave, portatori di conoscenze di cui l’impresa non può privarsi) tra i più anziani”.