Se la politica è un file Excel

Giuseppe MariggiòSe in una grande azienda pubblica si fanno le simulazioni di chiusura bilancio mensile con Excel, forse c’è l’esigenza di fare analisi dati, ma non ci sono gli strumenti adatti. Alcuni di questi file hanno una serie di campi interlacciati e sono così complessi da non essere più fogli di calcolo, ma vere applicazioni che per un aggiornamento possono richiedere anche mezza giornata. E basta il “copia e incolla” sbagliato di una directory o di un link per vanificare tutto il lavoro. Eppure, chi si candida a incarnare la nuova generazione di decisori politici, propone di utilizzare proprio Excel come strumento di governance. Con Excel, si possono fare molte cose utili, ma non si possono analizzare gli scenari possibili. Certo, rispetto a una classe vetusta abituata a far di conto con la matita e la gomma, il messaggio ha una sua modernità. Ma se pensiamo alla complessità dei conti dello Stato, all’esigenza di trasparenza, di efficienza e di ottimizzazione delle risorse, anche un non addetto ai lavori si rende conto che Excel non può essere uno strumento in grado di supportare il processo decisionale in modo analitico. L’informatizzazione della PA non può prescindere da una cultura diffusa dell’innovazione in grado di ridefinire pratiche e meccanismi di governance. E i decisori politici non possono ignorare la conoscenza degli strumenti, sempre che non si tratti di innovazione tecnologica, per così dire, prêt-à-porter. A causa della mancanza di competenze specifiche, l’innovazione del Paese è rimasta al palo, ridotta a un titolo poco originale per convegni e decine di rapporti. Siamo agli ultimi posti in Europa per accesso a Internet di nuova generazione e digitalizzazione della pubblica amministrazione. Non di rado, come mi raccontava – off the record – il CIO di una grande azienda,  nella PA l’implementazione delle soluzioni deve inseguire processi burocratici contorti che aggiungono inutile complicazione alla complessità. Di recente, Jeffrey Zients ha aiutato il presidente degli Stati Uniti a far funzionare il sito healthcare.com. Il sito dove milioni di statunitensi privi di assicurazione sanitaria dovevano registrarsi rischiava il collasso. E c’è voluto un uomo dal polso d’acciaio, classe 1966, per mettere mano a tutta l’architettura e per controllare punto per punto le fasi di esecuzione.

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Da questa parte dell’oceano Atlantico – invece – abbiamo scelto un commissario dalla mano poco ferma per mettere al sicuro il secondo impianto siderurgico d’Europa. Non solo. A più di un anno dal decreto Crescita 2.0, il sito web dell’Agenda Digitale Italiana è “under construction”. Quando da queste pagine avevamo intitolato il dossier sull’argomento “Lavori in corso”, non volevamo essere profetici. A parte alcune frasi a effetto («Andare avanti significa non stare fermi»), che farebbero sembrare monsieur de La Palice un dilettante, bisognerebbe utilizzare un sistema di rating, (sul modello di Solvency e Basilea) anche per misurare l’attività parlamentare e valutare la performance di governo. E perché no, l’introduzione del certificato elettorale a punti con la nuova legge non sarebbe una cattiva idea. Non sono un economista, ma il mio professore di Economia politica dell’Università Cattolica di Milano, Luciano Venturini, non si stancava mai di spiegare una legge economica elementare: la domanda crea la crescita. Ma senza istruzione, quella domanda può essere pericolosamente sbagliata. E quanto alla spesa pubblica, possiamo decidere tra una spesa sprecona e una spesa capace di far crescere il Paese. Se le imprese che acquistano le soluzioni di IBM, Microsoft, SAS, Oracle per essere più competitive e massimizzare i profitti sono costrette a chiudere, chi pagherà i fornitori? I capitani del capitalismo italiano sono pavidi più che coraggiosi, non prendono mai su di sé il rischio delle loro azioni, ma lo impacchettano in società di controllo e lo distribuiscono sulle spalle degli altri. Essere in contatto con la realtà che cambia, deve essere una pratica quotidiana per i manager che guidano le aziende. Il collo della bottiglia è sempre in cima. Persino Warren Buffett e Bill Gates, pur con le loro dichiarazioni da monopolisti – rispetto ai nostri – sembrano illuminati esponenti della cultura sociale di impresa. E più che bi-polarizzata, la società italiana è una società bipolare sempre a rischio depressione. Non basta una fleboclisi di Tavor per riacquistare fiducia nel futuro. Secondo l’indagine di Banca d’Italia, i redditi diminuiscono, la povertà aumenta e il 10% possiede il 46% della ricchezza prodotta. È vero, senza differenza di potenziale la corrente non circola nel sistema. La diseguaglianza è il motore dell’economia. Siamo – però – alle soglie della rottura del patto sociale. L’eccesso di diseguaglianza produce mostri e minaccia la democrazia. Ma se le regole producono troppa diseguaglianza, non è il mercato – è la politica – che deve trovare le soluzioni. E un foglio Excel non può essere di aiuto.

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