Viviamo in un tempo in cui parlare di tecnologia senza cadere nella retorica è sempre più difficile. L’innovazione è diventata parola chiave in ogni piano industriale, e la digitalizzazione è ormai considerata un prerequisito, non più un obiettivo. Ma proprio per questo, credo sia il momento giusto per chiedersi quale sia la tecnologia che ci serve davvero e se è solo la tecnologia a fare la differenza.
Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito all’esplosione delle tecnologie emergenti: intelligenza artificiale, big data, IoT, blockchain. Le aziende si sono spesso avvicinate a queste soluzioni con logiche sperimentali, spinte dal desiderio di “stare al passo”, spesso solo per poterne parlare e senza disporre di un disegno organico. È stato un passaggio necessario, ma oggi questo approccio “tech-first” non basta più.
Entrando nel merito specifico dell’AI, i dati del rapporto pubblicato a luglio “State of AI in Business 2025” del MIT, frutto di una ricerca svolta nei primi sei mesi di quest’anno, hanno evidenziato come il 95% dei progetti di intelligenza artificiale non riesca a generare valore tangibile. Considero questo non un limite tecnologico, ma il risultato di approcci inadeguati. L’elemento distintivo non è l’adozione della tecnologia, ma il modo in cui l’organizzazione la integra nella propria struttura decisionale, operativa e culturale.
La tecnologia deve essere un fattore di governo, non solo di supporto. Deve aiutarci a prendere decisioni migliori, più rapide e coerenti, diventando una vera architettura del cambiamento. Nel settore bancario, per esempio, l’AI predittiva sta rivoluzionando la valutazione del rischio creditizio, con riduzioni significative delle transazioni fraudolente. Ma il vero salto di qualità è culturale: l’IT deve diventare parte integrante della catena del valore e non essere percepito solo come centro di costo.
L’elemento chiave oggi è la capacità di costruire sistemi decisionali intelligenti, capaci di integrare dati, modelli predittivi e feedback umani in quella che possiamo chiamare intelligenza distribuita. Ma attenzione: senza una data governance solida, anche i progetti più ambiziosi falliscono. Dataset incompleti o inconsistenti diventano la base fragile su cui costruire modelli inefficaci.
La tecnologia non sostituirà il pensiero umano, ma lo estenderà. Preferisco vedere l’AI come un fattore di accelerazione efficace delle capacità umane, che sicuramente integra e non necessariamente sostituisce. È come un pilota automatico che gestisce efficacemente le operazioni standard, ma in situazioni complesse è l’expertise umana a prendere il controllo, almeno questo è il mio auspicio.
L’esperienza quotidiana di Aubay al fianco di grandi realtà che operano nel banking, telco, utility e industry ci insegna che la chiave non è mai solo tecnica. Il valore si crea quando la tecnologia viene inserita in un contesto di visione condivisa e capacità di adattamento continuo.
Non possiamo più pensare in termini di progetti chiusi. Le organizzazioni innovative stanno abbandonando questa logica per adottare modelli evolutivi, basati su piattaforme scalabili e sperimentazione continua. La logica non è più “costruire e mantenere”, ma “co-creare e adattare nel tempo”, trasformando ogni progetto in una piattaforma evolutiva. A tale scopo la governance tecnologica deve unirsi strutturalmente alla gestione del capitale umano. Formazione continua, upskilling e leadership diffusa diventano elementi centrali quanto le piattaforme stesse. L’esperienza mi ha insegnato che la tecnologia non genera valore da sola, bisogna saperla far vivere dentro le organizzazioni. Il ruolo di chi lavora come Aubay nel cuore dell’innovazione è accompagnare, tradurre e far dialogare mondi diversi. Solo così la tecnologia smette di essere un linguaggio per pochi e diventa patrimonio condiviso.
Francesco Cinquegrani, VP – operation director di Aubay Italia