A cura di Davide Marini, Country Manager Italy di NetApp
La sovranità dei dati è diventata un terreno di dibattito che va al di là delle conversazioni di informatica.
L’Europa evidenzia i rischi di dipendere troppo dai cloud provider stranieri, e invita le aziende e le pubbliche amministrazioni a tenere i dati sensibili lontani da certe giurisdizioni. Intanto, le norme su archiviazione e trasferimento delle informazioni si fanno sempre più rigide.
Per le aziende, questo non è un dibattito astratto: decidere dove tenere i dati, chi li gestisce e come li si protegge significa oggi assumersi rischi concreti, dal punto di vista economico, legale e reputazionale.
Il problema è che molti vedono la questione in maniera manichea: o i dati sono custoditi in una sorta di fortezza inaccessibile, isolata dal resto del mondo, oppure scorrono liberamente nei cloud pubblici globali. La realtà è più sfumata: la sovranità è un equilibrio dinamico, e la vera sfida è trovare il punto di equilibrio “giusto” – quello che garantisce sicurezza, controllo ed efficienza senza sacrificare agilità e capacità di innovare.
Dal bunker al cloud ibrido
All’estremo più rigido ci sono i cosiddetti dark site: sistemi on-premises completamente chiusi, scollegati da internet e dal resto del mondo. Sono indispensabili – e talvolta obbligatori – per alcune funzioni militari, di intelligence o governative ad altissima sensibilità. Questo livello garantisce il massimo controllo e sicurezza, spesso con requisiti stringenti anche per il personale autorizzato ad accedervi.
L’adozione di questo sistema da parte della maggior parte delle aziende non sarebbe sostenibile, per via dei costi altissimi, della rigidità operativa e della perdita dei vantaggi di scalabilità e innovazione offerti dal cloud.
Per settori come banche, assicurazioni, sanità o energia, infatti, la sfida è diversa: i regolatori impongono un controllo rigoroso su determinati dati, ma queste stesse industrie vivono di connettività, collaborazione e velocità. Qui la soluzione più diffusa è un modello ibrido: i dati più sensibili – cartelle cliniche, storici finanziari – restano in locale, mentre il cloud viene usato per carichi di lavoro meno critici, sfruttandone efficienza e scalabilità.
Immaginiamo una grande banca globale con clienti in Europa, Nord America e Asia: ogni area impone regole diverse su come archiviare e trattare i dati personali. Troppa centralizzazione rischia di violare la compliance, troppa frammentazione riduce l’efficienza. La zona ideale sta in un approccio ibrido: i dati sensibili restano entro i confini nazionali, mentre le analisi meno critiche viaggiano nel cloud per velocità e capacità di calcolo.
La chiave è un’infrastruttura dati capace di orchestrare questo equilibrio: strumenti di visibilità per sapere sempre dove si trovano i dati, policy facili da applicare per evitare che attraversino confini indesiderati, e controlli di ciclo di vita per cancellarli in modo sicuro ovunque siano.
Definire il “quanto basta”
Il vero nodo per i leader aziendali è capire qual è il livello di sovranità ideale. Tre fattori lo determinano:
- Obblighi normativi – stabiliscono dove i dati possono risiedere e come devono essere trattati, lasciando spesso poco margine di manovra.
- Requisiti di performance – in settori come finanza o automazione industriale, la vicinanza fisica e la bassa latenza sono cruciali.
- Dipendenza dai fornitori – affidare carichi critici a un solo hyperscaler può semplificare le operazioni, ma espone anche a rischi strategici: questi provider sono soggetti alle leggi dei Paesi in cui hanno sede, e in caso di tensioni geopolitiche potrebbero essere obbligati a fornire dati ai propri governi.
Pesando insieme questi elementi, le organizzazioni possono individuare la propria zona ideale, in cui operare in sicurezza senza frenare l’innovazione o generare costi insostenibili.
Governance e architettura sono fondamentali per arrivarci. Serve chiarezza su dove risiedono i dati, come si muovono e chi vi accede.
La compliance, poi, deve essere garantita sia a livello locale che globale: dal GDPR europeo alle norme settoriali statunitensi o asiatiche. Le regole sulla residenza dei dati possono cambiare, e avere un’infrastruttura riconfigurabile è un’assicurazione sul futuro.
Infine, la sovranità riguarda l’intero ciclo di vita dei dati: creazione, utilizzo, archiviazione e cancellazione. Se un sistema non può eliminare in modo sicuro ciò che non serve più, non è davvero sovrano.
La sovranità dei dati come processo di governance
La sovranità non è statica, né si aziona con un interruttore. È un processo. Le norme cambiano, le minacce informatiche evolvono, le priorità di business si spostano. Ciò che oggi è sufficiente, domani potrebbe non esserlo più.
Per questo va trattata come un processo di governance continuo, da rivedere e adattare regolarmente. Non è solo una questione tecnica: le scelte sulla sovranità determinano la resilienza di un’organizzazione di fronte a cambiamenti normativi e turbolenze di mercato, e incidono sulla capacità di mantenere competitività, fiducia e crescita nel lungo periodo.
La visione binaria della sovranità è superata. Il futuro sta nel capire lo spettro delle possibilità e trovare il punto di equilibrio ideale.


































