La partita delle reti, oltre la tecnologia


Poca voglia di investire nella fibra, risorse concentrate sul wireless. Le nuove prospettive offerte dal rame veloce con il vectoring non sono neutrali. Dietro a questi scenari c’è la “rivalutazione” miliardaria del valore della rete in rame senza la spada di Damocle dello switch-off, e quindi di un nuovo rapporto tra Telecom e i concorrenti

La rete mobile come la benzina? Un elemento comune c’è. Ed è il peso economico dello Stato, paragonabile a quello delle imposte e accise sul prezzo alla pompa: oltre il 60%. L’amministratore delegato di Telecom Italia, Marco Patuano, ai primi di marzo ha quantificato l’impegno di investimento per il triennio 2012-2014 per le reti wireless di nuova generazione. I cinque-seicento milioni per la parte tecnologica – industriale ovvero l’Lte con il suo corredo di celle, stazioni macro e micro, adeguamento di backhaul, cioè la rete che connette le celle, e backbone – sono meno della metà dei 1.200 milioni spesi per le frequenze attribuite dopo la gara dello scorso settembre. Insieme, sono una frazione di quanto servirebbe per la rete Ngn in fibra. Che infatti non si farà, se non a piccole rate.

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Il paradosso è proprio qui. L’ha fotografato il presidente dell’Agcom Corrado Calabrò parlando alla Camera a fine gennaio ed è tale da condizionare tutta la filiera ICT. Ruota attorno alla disparità di attese di ritorno economico e quindi di disponibilità a investire tra rete mobile e rete fissa. Gli operatori fanno capire a chiare lettere che, mentre sono disposti a pagare cospicui oboli allo Stato per la rete mobile (3,9 miliardi per le licenze Lte contro i 2,4 attesi), gradirebbero qualche cadeaux per la Ngn sulla rete fissa. Altrimenti, che se la facciano gli altri. Magari quella Cassa Depositi e Prestiti, l’azionista di maggioranza del fondo infrastrutturale F2i, che promette di essere il veicolo per far decollare la rete ottica, ma solo nelle maggiori città, dove, tutto sommato, i soldi potrebbe anche metterceli il privato.

Le condizioni di Telecom

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Telecom Italia, intanto, nell’aggiornamento del suo piano triennale ha messo i puntini sulle “i”. Non solo per correggere al ribasso la promessa di dividendi crescenti al ritmo del 15% l’anno, fatta solo un anno fa, ma per spiegare come e dove metterà i soldi.

Punto (o “puntino”) numero uno: gli investimenti dovranno essere “demand driven”. Traduzione: se c’è la domanda bene, altrimenti qualcuno dovrà stimolarla. Punto numero due: per la fibra a casa dell’utente (Fibre to the building / home) il mercato non c’è. Si farà qualcosa su Milano, il resto in altre città se ci sarà la collaborazione di terze parti, qui il pensiero corre evidentemente a Metroweb / F2i.

Punto numero tre: la scommessa per Telecom Italia è oggi quella “a due stadi” dell’FttCab, ma potrebbe essere un gentile eufemismo perché i tempi restano incerti. Ovvero, si parla della Fibra fino al primo stadio della rete di distribuzione, l’armadio stradale, lasciando al vecchio, glorioso rame, il secondo stadio: quello fino all’abitazione. Una tratta che, nella specifica della rete italiana, dove gli armadi stradali sono 140mila, è in genere inferiore ai 600 metri e quindi si presta per la tecnologia Vdsl2, rivitalizzata magari con la nuova tecnologia del vectoring. Una volta compiuto il primo passo, fino all’armadio, che Telecom pensa anche di ammodernare in molti casi, riducendo il numero dei costosi “central office”, là dove necessario, in seguito si potrà anche portare la fibra fino alle abitazioni, se ci saranno le premesse economiche.

Scelte non neutrali

Non si tratta di uno scenario neutro, e basta guardare alle reazioni che si sono generate. Il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, raccogliendo le istanze dei concorrenti, come Paolo Bertoluzzo e Ossama Bessada, amministratori delegati di Vodafone e di Wind, ha replicato che, così com’è avvenuto per le autostrade, qui è l’offerta a generare le condizioni per lo sviluppo della domanda, non il contrario. Per Telecom, la risposta è il rame veloce “atto secondo”. Dieci anni fa, l’Adsl aveva aumentato la velocità delle reti in rame portandola dalle decine di kilobit al secondo dei vecchi modem (che sottraevano la banda al traffico vocale) alle centinaia di kilobit e poi ai Megabit attuali. Oggi, il Vdsl2, soprattutto con la variante vectoring che annulla le perdite di segnale dovute alla diafonia (“cross-talk”) sui fasci di doppini, permette un altro salto di qualità. Sarà possibile raggiungere nel download i 100 Mbit/s entro i 400 metri dell’armadio stradale e i 50 Mbit/ entro gli 800 metri. Quanto basta per soddisfare, a costi e tempi ridotti, gli obiettivi dell’Agenda Digitale Europea per il 2020: tutta la popolazione raggiunta da una rete ad almeno 30 Mbit/s e la metà a 100 Megabit.

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Anche la supercommissaria all’Agenda Digitale, l’olandese Neelie Kroes, ferrea sostenitrice della fibra per tutti, che a febbraio ha ottenuto la prima edizione del premio della Ftth conference proprio per la sua fiducia nella rete ottica, ha dovuto far buon viso a cattivo gioco. Prima ha ammesso che le sole regole del mercato non sarebbero bastate per raggiungere in tempi utili gli obiettivi, e ha stanziato 9,2 miliardi di aiuti comunitari, di cui due terzi per le infrastrutture. Infine, ha dovuto riconoscere che non è il caso di puntare su una sola tecnologia, ma che Dsl / vectoring e Lte possono affiancare la fibra.

Tutto a posto? Fino a un certo punto. Il vectoring, che funziona con una gestione unificata di un sofisticato algoritmo che permette di compensare la diafonia su un fascio di doppini, non consente di installare entro lo stesso armadio apparati diversi, quindi di più operatori e, del resto, la limitata distanza coperta dal Vdsl fa sì che proprio nel “cabinet” si giochi la partita decisiva. In pratica, chi vorrà fare concorrenza a Telecom non potrà realizzare un unbundling fisico, ma solo uno virtuale, o l’acquisto all’ingrosso, attraverso un accordo con l’operatore dominante. La conseguenza non è solo tecnica, ma rappresenta una scommessa che vale parecchi miliardi di euro e spiega il contrasto tra Telecom e i suoi concorrenti.

Il passaggio alla fibra, infatti, avrebbe comportato fatalmente uno switch-off, cioè l’abbandono del rame in favore dell’accesso ottico, con regole da stabilirsi. Il vectoring, invece, torna a dare valore al rame, che Telecom ha e i concorrenti no. Del resto, sarebbe stato illusorio pensare che Telecom avrebbe rinunciato a cuor leggero al valore della sua rete – miniera in rame. Basterebbe guardare a quanto è successo con la più vasta rete ottica sin qui lanciata, quella della National Broadband Corporation avviata dal Governo in Australia. Oltre ai 40 miliardi di dollari australiani per la rete (23 miliardi di euro), il governo–azionista ha dovuto mettere a disposizione una decina di miliardi di dollari locali, circa 7 miliardi di euro, per finanziare lo switch off, che altrimenti l’operatore dominante Telstra, non avrebbe digerito.

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Il risultato di questo miliardario gioco delle parti è che, proprio per questo motivo, l’idea “società delle reti”, svanita con il crollo del “Tavolo Romani”, potrebbe tornare in auge alle nuove condizioni: una Telecom Italia che può valorizzare il suo asset tecnologico, e concorrenti che accettano di diventare dei partner e investire. Ci sono, del resto, delle alternative? Fallimento del “Tavolo Romani” a parte. Se Telecom Italia può tirare il freno dietro una politica selettiva, anche gli “Olo” (Other licensed operators) hanno ridotto le ambizioni. Del progetto Fibra italiana, che doveva arrivare a investire 2,5 miliardi di euro non si è più sentito nulla. Vodafone sta pensando all’Lte, Wind ha cambiato proprietà, Fastweb ha scenari incerti: da una parte viene data sul mercato, dall’altra non può sfuggire che a rilevare l’11,1 per cento di Metroweb – veicolo delle rete in fibra a Milano ed eventualmente altre città – non è stata Fastweb, ma la controllante Swisscom Italia. A questo punto, come tornare a dare coraggio agli operatori delle rete fissa?