Spendere? Sì, possibilmente bene

Spendere? Sì, possibilmente bene

La ricetta della crescita passa per il digitale? Può darsi. Purché ci si ricordi di un proverbio, quello secondo cui la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Quando i soldi scarseggiano, diventa ancora più urgente spenderli bene. Il che non è affatto scontato. La “cura” digitale sembra un passo dovuto per riprendere l’agenda dello sviluppo, ma non sempre i conti tornano. Il rischio è che prevalga un’idea “keynesiana” del sostegno della spesa IT. Quale essa sia. In Italia, si spende il 30-50% meno per l’information technology rispetto al PIL che negli altri Paesi OCSE? Nulla di più accattivante che pensare a una politica della spesa che – se potrà far piacere alle aziende del settore – non necessariamente potrà far scattare la molla decisiva per un salto di qualità, non meno importante della quantità. Il campionario di idee “sopra le righe” – fortunatamente archiviate – parla da solo: dall’idea “renziana” avanzata un paio d’anni fa, da Assinform, per finanziare la rottamazione delle vecchie applicazioni (finché queste funzionano, sarebbe meglio pensare a quelle che, più semplicemente, non ci sono) a quella sostenuta da Confindustria Digitale per la parziale defiscalizzazione dell’e-commerce (se ha bisogno di un’aliquota privilegiata per essere competitivo, tanto vale lasciare il negozio di quartiere). Forse era meglio ripristinare una Tremonti Ter che sostenesse la spesa tecnologica delle aziende. Un altro dei rischi da cui fuggire è quello di un’informatica che, in nome di investimenti taumaturgici (in genere a carico delle aziende), porti a complicare la vita, invece, che a semplificarla. Sono molte le università che prevedono procedure online per iscriversi. Pensare di farne l’unica strada potrebbe essere inappropriato. Soprattutto quando il sistema universitario italiano è noto all’estero per i tempi biblici necessari per presentare un diploma di laurea. Nella dichiarazione dei redditi è prevista la casella per inserire l’indirizzo di posta elettronica? Ottimo, ma allora perché la corrispondenza va avanti a colpi di raccomandate e code alle Poste per ritirarle? E perché non usare più estesamente la PEC? Per carità, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Digitalizzare le procedure sarà utile. Eliminare quelle che non servono lo è ancora di più. Anche il servizio per effettuare dichiarazioni e pagare le tasse online è apprezzabile. Peccato che quest’anno chi avesse voluto cimentarsi con la compilazione e invio del modello Unico avrebbe dovuto sfidare il labirinto di tre release di Java, ovviamente, con forti incompatibilità tra di loro: Java 1.6 secondo Agenzia delle Entrate e Sogei che rimandano al sito di Oracle, che però informa che la versione scaricabile è oggi la 7.0. E il plug-in per l’invio telematico della dichiarazione non funziona, perché ha bisogno della release 1.5. Problemi noti agli operatori dei call center, ma sconosciuti alle istruzioni del sito. Può essere ragionevole pretendere un “catasto” delle reti che corrono nel sottosuolo, per poter utilizzare i manufatti, per esempio per infilarci le fibre ottiche, o per evitare di tagliare un tubo del caso quando si cerca di riparare un acquedotto. Tuttavia sarebbe anche e forse più opportuno mantenere un database di data center (un quarto di migliaia solo nella PA centrale) e applicazioni, per poterne definire il riutilizzo. Digitalizzare i processi operativi della pubblica amministrazione non è solo un problema tecnologico. Richiede procedure e organizzazioni del lavoro conseguenti, superando una logica per la quale occorre un premio di produttività per spostare procedure dai faldoni all’online. Mezzo secolo fa, usciva il bel film di Mario Soldati “Policarpo, ufficiale di scrittura”, con protagonista Renato Rascel, amanuense del ministero che doveva convertirsi, suo malgrado, alla macchina per scrivere. Siamo sicuri che il clima sia cambiato?

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