Greenpeace, tecnologia sostenibile!

“Una nuova nave ipertecnologica e le passata campagna contro l’inquinamento di Facebook dimostrano quanto sia centrale la tecnologia nelle attività di Greenpeace. Ne abbiamo parlato con Alessandro Giannì, Direttore delle Campagne di Greenpeace Italia che inoltre ha confermato quanto strategica sia la comunicazione per l’associazione ed ha commentato il recente incidente della Costa Concordia.”

L’occasione per realizzare quest’intervista è legata alla costruzione della nuova nave Rainbow Warrior III. La prima è stata bombardata dai militari francesi. La seconda è stata colpita, confiscata e speronata dalle imbarcazioni governative, assaltata dalla polizia, eppure amata da milioni di persone. La Rainbow Warrior  è da sempre il simbolo di Greenpeace; ha permesso di raggiungere anche le aree più remote del Pianeta, dove si compiono disastri ambientali lontano dagli occhi di tutti. 

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La Rainbow Warrior III è la prima nave equipaggiata con le più moderne tecnologie di comunicazione, un eliporto a poppa e due scialuppe di salvataggio. Per tenere al minimo il consumo di carburanti e farne un mezzo di trasporto verde e sostenibile, è dotata di un rivoluzionario sistema di alberatura che sorregge 1260 metri quadrati di vele.

Com’è nata l’idea di creare questa nuova nave e di dotarla delle più moderne tecnologie esistenti al giorno d’oggi?

Greenpeace è un’associazione ambientalista che chiede alle aziende di impegnarsi nel campo della responsabilità e sostenibilità ambientale. Siccome le navi per Greenpeace sono uno strumento importante e anche identitario, ci siamo posti il problema, nel momento in cui la Rainbow Warrior  cominciava a diventare comunque una nave molto vecchia (come nave ha più di 50 anni ed è stata una nave di Greenpeace per circa 30 anni, mentre prima era un peschereccio), di cosa fare per sostituirla. A questo punto è sorto un interrogativo importante, ovvero se riacquistare una nave che stava già sul mercato e che avremmo poi dovuto “modificare” successivamente, come abbiamo fatto con la Rainbow Warrior per renderla adatta alle nostre esigenze, oppure partire da un presupposto diverso cioè: “ci facciamo noi stessi la nave che ci piacerebbe”. Anche se con una certa difficoltà è stata scelta la seconda opzione, perché era quella che ci piaceva di più (pur essendo costosa) e si è scommesso sull’idea di poter sviluppare un progetto tutto nuovo, senza doversi adattare a qualcosa di già esistente. Dopodiché ci siamo soffermati a ragionare su quel che ci serviva e  su ciò che volevamo.

Questa nave che è più o meno lunga quanto la precedente, quindi sui 50 metri, con due alberi invece dei tre ha una superficie velica dell’ordine di 900 m2, ovvero il triplo della Rainbow Warrior II. Abbiamo voluto fortemente una nave che avesse motori con caratteristiche tecnologiche elevate ed una superficie velica molto ampia in modo da garantire consumi ridotti nell’ordine del 60%.

Chi ha avuto modo di vederla dal vivo avrà notato subito che non è la classica nave. Già da lontano ci si può rendere conto della  sua particolare alberatura. Non c’è infatti il classico albero che hanno tutte le barche a vela, c’è invece una specie di arco che parte dalle due murate, è molto stretto ed alto ed ha una  struttura che carica la spinta sulla murata.

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Inoltre credo che  questa nave sia la prima o comunque una delle poche  tra quelle a vela ad avere un ponte porta-elicotteri. 

Quanto è costata la nave?

Se non erro siamo nell’ordine di 15 milioni di euro. Greenpeace ha chiesto ai suoi sostenitori uno sforzo specifico per finanziare questa impresa ed il concetto di base era quello che questa nave fosse la nave di tutti quelli che ci sostengono. L’idea della campagna è stata “acquistate per noi un pezzo di nave”. Abbiamo avuto molto successo e ciò  sottolinea il legame con i nostri sostenitori; Greenpeace non riceve fondi da governi, enti, stati o imprese e quindi il filo che ci lega alle persone che ci sostengono è fondamentale.

La costruzione della nuova Rainbow Warrior è stata possibile grazie alle donazioni di più di 100 mila sostenitori che hanno acquistato varie parti della nave sul sito http://anewwarrior.greenpeace.org.

Ho visto che, tra l’altro, la nave di Greenpeace è completamente cablata in fibra ottica, cosa vuol dire questo per voi?

Finora noi avevamo dovuto adattare i sistemi che erano esistenti sulle nostre precedenti navi,  per usare delle tecnologie particolari per esempio lo streaming su internet delle attività che fa l’associazione.

Bisogna tenere presente che Greenpeace è un generatore di informazioni. Le tecnologie di oggi rendono possibile armeggiare molto rapidamente le informazioni e soprattutto consentendo di creare un legame in tempo reale tra l’oggetto da comunicare e il pubblico destinatario.

L’idea di avere una nave con delle caratteristiche molto performanti dal punto di vista della comunicazione è necessario in un settore che ha dei salti tecnologici molto rapidi, quindi abbiamo cercato di essere tecnologici il più possibile, in modo anche da non far diventare obsoleta la nave nel giro di pochissimo tempo.

                 

Parliamo della campagna che Greenpeace ha fatto su Facebook

Come associazione globale analizziamo costantemente  quali sono i trend principali del nostro pianeta per individuare i centri di costo ambientale più rilevanti. Sotto questo punto di vista tutto il settore delle nuove tecnologie è al centro dell’attenzione; innanzitutto per la produzione di rifiuti perché la crescita di rifiuti elettronici è evidentemente esponenziale. Un altro aspetto del settore che ci ha preoccupati è l’aumento dei consumi di energia dei grandi data center di imprese come Google,  Facebook, Apple. Facebook ad esempio aveva scelto di collocare i suoi data center in aree in cui necessariamente l’alimentazione era ad energie sporche, il che voleva dire garantire a chi produceva questa quantità di energia elettrica sporca ( carbone o nucleare) non solo dei grandi profitti ma anche una grande sostenibilità del tempo. Questi data center sono i clienti ideali infatti perché consumano allo stesso livello sia di giorno che di notte, quindi non c’è niente di meglio. Il fatto che Greenpeace, con una mobilitazione degli stessi utenti di Facebook, abbia costretto questa azienda a decidere di stare più attenta alla collocazione dei propri data center e quindi l’abbia convinta a spostarsi verso l’uso dell’energia rinnovabile per creare un mercato sempre più grande per questo tipo di energia, ha un significato che ovviamente trascende la questione della singola impresa e a questo punto riguarda anche altre imprese. I competitor di Facebook si dovranno infatti adattare a questa cosa perché anche la loro “clientela” esigerà da loro questo tipo di sforzi.  Non si può sostenere di usare tecnologie, meno impattanti e più sostenibili e poi venire a scoprire che dietro quella che sembra un’attività innocua invece ci sono costi ambientali nascosti, sarebbe un problema serio per le aziende.

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In concreto Facebook cosa farà, sposterà i suoi CED?

C’è un impegno, che ovviamente è scandito nel tempo, per abbandonare fonti di energia sporca a favore di energia pulita. Ovviamente sono grandi imprese e nessuno può pensare che dall’oggi al domani cambi il loro modo di fare. Però l’impegno di Facebook è quello di svincolarsi da fonti di energia come il carbone e il nucleare.

Parliamo della Costa Crociere e del suo incidente, che ne pensa?

E’ un incidente che può sorprendere solo chi in mare non ci va e non si occupa di questi fenomeni. Io per molto tempo ho vissuto all’Isola d’Elba e molti cittadini del mare, comprese molte amministrazioni, erano preoccupate di questi passaggi ravvicinati delle imbarcazioni.  Il problema del traffico marittimo e in particolare di quell’area è che dovrebbe essere un Santuario dei Cetacei (un triangolo compreso tra la Costa Azzurra, la Toscana e la Corsica) e ciò avrebbe dovuto regolamentare tante cose sull’inquinamento, tra cui anche i trasporti marittimi. Curiosamente, l’accordo del Santuario dei Cetacei ha compiuto dieci anni l’anno scorso proprio come la norma nazionale italiana che permette al Ministro dei Trasporti insieme al Ministro dell’Ambiente di regolamentare il traffico marino. Ci sono quindi tutte le premesse legislative per poter fare una norma che dice: “Tu con una barca o una nave così grande non ti puoi avvicinare alla costa per farti vedere, per fare lo spettacolino per gli ospiti della tua nave o per farti pubblicità a terra. E’ troppo rischioso e non lo puoi fare”. Noi, con un gommone di sei metri, per accostarci ad uno scoglio come quello contro cui c’è stato l’impatto della Concordia, utilizzeremmo tutta una serie di cautele e stiamo parlando di un gommone di 6 metri! Questa è invece una barca di 600 metri ed è impensabile che si sia avvicinata, anche solo di mezzo miglio per la manovra. Questo incidente è frutto del fatto che, anche in maniera piuttosto consapevole, non si sono volute prendere una serie di misure che sono state richieste. A tal proposito, c’è un rapporto di Greenpeace che dice che si riscontra un traffico marittimo molto elevato e ciò che è interessante è come questo traffico è stato riscontrato. Greenpeace ha rilevato ciò tramite un aggeggio che sta a bordo di tutte le sue navi e si chiama AIS (Automatic Identification System) e permette di far vedere, su una specie di cartina digitale, la posizione di ogni nave. Cliccando poi sul segnale si vedono tutte le informazioni su quella nave (che tipo di nave è, quant’è grande, da dove è partita, dove è diretta, la rotta che sta seguendo, la stazza, ecc.). Quindi ogni capitaneria, compresa quella di Livorno e sicuramente il centro di controllo e coordinamento generale qui a Roma, potevano vedere su uno schermo, quella notte lì, la nave che stava arrivando in quel posto. Il problema è che non c’è nessuna norma che vieta a quella nave di farlo e non c’è alcun tipo di allarme che si attiva. Anche se sarebbe facilissimo da attivare: se io mi avvicino troppo con una imbarcazione di una certa stazza alla costa, scatta l’allarme, la capitaneria mi chiama e mi chiede spiegazioni. Così facendo, quindi, la Capitaneria avrebbe il tempo di intervenire, ovviamente. Perciò è chiaro che [tornando alla Concordia, ndr] esistevano tutti i sistemi e le premesse per intervenire, semplicemente non si è voluto fare.

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Ma pare ci sia stato anche un errore umano che forse non è prevedibile?

L’errore umano si previene esattamente con questo metodo. Nel Canale della Manica ad esempio ci sono stati un numero considerevole di incidenti rilevanti, dopo di ciò si è stabilito che in quel posto si dovesse passare con una canalizzazione, in modo da prevenire ulteriori disgrazie. Lo stesso principio è stato applicato nel Canale di Sicilia. Bisognerebbe quindi aggiungere alla perizia del comandante anche la norma.

In un caso come questo, in cui l’incidente provoca anche dei problemi ambientali anche per lo smaltimento di rifiuti, voi potete intervenire e dare una mano concretamente?

Sì, io ricordo il caso del Libano in cui nel 2006 ci fu un bombardamento ad una centrale elettrica ed una conseguente fuoriuscita di petrolio in mare.  Greenpeace, in quell’occasione, mise a disposizione persone e mezzi per aiutare, in accordo ovviamente con le autorità competenti. Diciamo che facciamo quello che possiamo. Abbiamo denunciato per anni che non si è fatto nulla e, in una situazione critica come questa, siamo a disposizione per intervenire e dare aiuto.

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Alessandro Giannì, Direttore delle Campagne di Greenpeace Italia, nasce a Salemi (TP) l’11 settembre 1961. Nel 1984 si laurea a Pisa in Scienze Biologiche, dove poi consegue il Dottorato di Ricerca in Biologia dell’Evoluzione. Oltre che per Greenpeace, ha lavorato in giovine età – con borse di studio – all’ICRAM (Istituto Centrale Ricerca Applicata al Mare) e presso le Università di Marsiglia e di Copenhagen. Successivamente, dal 2000 al 2005, è stato esperto della Segreteria Tecnica per le Aree Protette, e della Segreteria Tecnica per le Aree Marine Protette, della DG Protezione Natura del Ministero dell’Ambiente, dove si è occupato soprattutto delle questioni comunitarie e internazionali della biodiversità e della biosicurezza (OGM).

Per Greenpeace, dal 1993 al 1998 ha lavorato prevalentemente sui temi della pesca, mentre dal 1996 al 1999 si è occupato anche di OGM. È stato responsabile della campagna Mare da febbraio 2006 e dal 2009 è il Direttore delle Campagne dell’associazione ambientalista.