FIAT COME OLIVETTI?


LA STORIA SI RIPETE?

Se la tecnologia può cambiare il futuro dell’auto, perché non può cambiare quello degli operai alla catena di montaggio? La storia delle relazioni industriali è simile a quelle delle relazioni internazionali. L’essenza è la lotta per il potere. Durante la Guerra Fredda, il conservatore Nixon e la Cina comunista, non esitarono a intendersi, avendo la Russia come avversario. Allo stesso modo, nella storia delle relazioni industriali, la contrapposizione ideologica ha dovuto cedere il passo all’interesse economico preminente, a volte mascherato da progresso o scelta obbligata. Nell’affare globale Fiat-Chrysler, qual è l’interesse preminente? Quello della Fabbrica Italiana Automobili di Torino e dei suoi operai o quello degli azionisti e della proprietà, Ron Bloom (capo della task force auto di Obama) compreso? Un’azienda per quanto legata a doppio filo alle vicende politiche di un Paese non può gestire una divisione in perdita per sempre o supplire alla mancanza di strategie per l’occupazione. La politica deve creare le opportunità per gli investimenti, le aziende devono essere in grado di coglierle in relazione agli obiettivi di business. Anche nell’era post industriale, gli operai bullonano a ripetizione alla catena di montaggio. L’industria italiana dell’auto è a una svolta epocale, che prefigura un futuro di mobilità sostenibile e automazione avanzata. Nel 1959 Adriano Olivetti davanti agli operai di Pozzuoli prefigurava l’era dell’elettronica. Dopo la sua morte, davanti agli stessi operai, Vittorio Valletta, manager alla guida della Fiat, dichiarava che «l’elettronica era il neo da estirpare». Sappiamo com’è andata a finire. Per Sergio Marchionne, qual è il “neo da estirpare” dal Lingotto? L’auto elettrica, a favore dei Suv per incentivare le vendite di Chrysler fuori dall’area Nafta (North American Free Trade Agreement), o gli operai?

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