Tornare ai fondamentali

 C’è un piano per l’Italia digitale?

A fine giugno, l’unica cosa certa è che il direttore dell’Agenzia Digitale, Agostino Ragosa, aveva concluso che, sì, la 34enne ministro (per la PA) Marianna Madia aveva ragione a chiedere “discontinuità” nei confronti di un manager alla soglia della pensione, strappato alle Poste, che in due anni aveva visto passare tre governi, impantanare uno statuto e con esso una pianta organica fatta più di ufficiali che di soldati. Il tutto, facendo anche buon viso alla nascita di un Commissario all’Agenda Digitale, Francesco Caio, all’inizio “prestato part time” da GE-Avio a Enrico Letta e ora finito alle Poste. Valutazioni sui risultati ottenuti? Sugli indirizzi? Non siamo noiosi, suvvia. I soldi del resto, sono quelli che sono, anche se viene da pensare che con i miliardi del MOSE di Venezia si poteva finanziare metà di una rete nazionale tutta fibra. Le aspettative in materia di “svolta digitale” nei confronti di questo governo, fan di Twitter e di Facebook, non mancano, ma quanto ci si può ragionevolmente attendere? Quanto, la PA, con la sua capacità di indirizzo e di spesa, potrà contribuire a una svolta che, per inciso, non è fatta solo di infrastrutture di rete (tipo SPC) ma anche di applicazioni e sistemi, magari anche all’insegna del cloud e quindi della condivisione? Una risposta seria non può prescindere dalle risorse e quindi dai risultati attesi dall’investimento. Se si sa “perché” investire, si può definire meglio anche il “come”. I generici richiami all’innovazione digitale rischiano di essere solo spot o – peggio – di aggiungere costi ai costi, senza benefici reali per il Paese: né di risparmi né di servizi. (Esempio: sappiamo davvero quale sarà il bilancio anche per le aziende, dell’obbligo della fatturazione elettronica verso la PA per le aziende?).

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Un confronto può essere utile. Il sistema bancario è da sempre uno dei grandi clienti dell’industria IT, insieme, negli ultimi 15 anni, con le telco. L’uno e l’altro di questi settori si sono cimentati con una grande trasformazione, dall’organizzazione dei servizi ai rapporti con la clientela. Elemento in comune: meno sportello, quindi meno mezze maniche, e più online. Con impatti forti sulla struttura dei costi. Solo il sistema bancario ha tagliato 40mila addetti su 340mila tra il 2000 e il 2010 e quasi altrettanti ne taglierà dal 2010 al 2020. Che cosa ha fatto la PA, con i suoi 3,5 milioni di dipendenti, sin qui ridotti solo con il freno al turnover? Le aziende investono in tecnologie per fornire più servizi e per risparmiare: più chip e meno teste.

Ma lo Stato se la sente di imboccare questa strada? A metà giugno, il governo ha dato dei segnali interessanti sul fronte del pubblico impiego, con l’obiettivo di incominciare a incrementare la produttività: più mobilità sul territorio e tra le funzioni, ma non si va molto oltre. Le aziende tagliano, ma lo Stato procede con i piedi di piombo. L’ipotesi di 86mila tagli avanzata dal commissario Carlo Cottarelli nella spending review è stata subito derubricata. Si vedrà se Matteo Renzi ce la farà ad affermare una politica che non può continuare a spostare risorse dal settore privato, rendendolo sempre meno competitivo, a quello pubblico. Sin qui, il governo si è dimostrato più propenso a ridurre i consigli d’amministrazione (operazione doverosa), che a mettere mano al tema della produttività del settore pubblico. La digitalizzazione della PA non consiste nel mettere uno strato di costi informatici “on the top” dell’organizzazione esistente. Occorre pensare una revisione organizzativa, pensare a come si possano soddisfare le esigenze di contenimento della spesa (non solo quella “esterna”), di semplificazione amministrativa e di miglioramento dei servizi. Motivi di costi ed efficienza consiglierebbero di pensare a un cloud della PA che superi il gorgo dell’attuale migliaio di data center. Il fatto è che la scelta non è solo tecnica. Chi se la sente di prenderla?

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