Il segreto della digital transformation non risiede solo nelle tecnologie. L’azienda digitale deve saper mettere tutta se stessa nei panni del suo cliente, imparando a conoscerlo in tutti i suoi comportamenti, attraverso i mille micromomenti che compongono il percorso di interazione con il brand
Il tema della trasformazione digitale – sapiente miscela di tecnologie innovative, nuova cultura manageriale e di profonda revisione del sistema di relazione con la clientela e con il capitale umano – riempie le pagine delle riviste specializzate e le tavole dei convegni dedicati all’evoluzione dell’informatica. Data Manager sta dando massima priorità a questo argomento, partendo da quello che può essere considerato il fattore scatenante di un cambiamento che coinvolge in misura paritaria le tecnologie hardware e software, il modo di concepire e gestire i processi del business digitale e il ruolo che accanto alle tecnologie spetta al capitale umano, dalle figure apicali fino ai collaboratori interni ed esterni a una organizzazione. Gli ingredienti di questa diversa modalità di approccio ai mercati coincidono con quelli che hanno contribuito a consolidare lo scenario complessivo della Terza Piattaforma, ovvero la coesistenza di fenomeni più specifici come l’informatica del cloud; la mobilità di lavoratori e consumatori; la disponibilità (sicuramente favorita dai primi due) di una massa crescente di informazioni digitali da affrontare con la strumentazione analitica messa a disposizione dalle piattaforme Big Data; e infine, ma non in ordine di importanza, la capillare socializzazione di un business che grazie alle grandi comunità di iscritti a Facebook, Twitter e altri “social network”, diventa sempre più interattivo e reattivo sia per quanto riguarda le aspettative di chi consuma sia dal punto di vista della capacità delle aziende di indirizzare e rispondere a tali bisogni.
INIEZIONE DI AGILITÀ
La trasformazione digitale consiste insomma in una potente iniezione di agilità e dinamicità non solo a livello infrastrutturale ma anche nelle teste delle persone, a incominciare dai ruoli di responsabilità fino ad abbracciare l’intera sfera delle risorse umane dell’azienda, disposte a farsi coinvolgere in uno “spazio di lavoro” distribuito e partecipativo, in due parole anch’esso software defined. L’informatica agile deve essere accompagnata da una cultura del processo real-time, basato sull’impiego di strumenti informatici e statistici in grado di misurare con parametri oggettivi la performance dell’azienda e delle sue componenti e fornire il necessario supporto decisionale. Principi che nelle realtà giovani, appena costituite, possono essere validi fin dal momento zero, ma che nelle realtà consolidate, proprio quelle che hanno più motivi di temere la maggiore tensione competitiva, comportano un graduale intervento di affiancamento e adeguamento delle infrastrutture esistenti. Si parla infatti di dualità dell’IT, laddove occorra gestire, anche a salvaguardia degli investimenti, sia i sistemi e le applicazioni in funzione da anni sia i servizi di nuova generazione.
IL CERCHIO DEL MERCATO
Proviamo però a ripartire dagli aspetti definitori, avvalendoci della copiosa letteratura in materia di azienda e marketing digitale. Abbiamo individuato una serie di white paper proposti dalla società di consulenza americana Prophet e da Google, che inquadrano in modo molto efficace, sia i diversi ingredienti del business nell’era di Internet sia le direzioni prese dalle aziende più innovatrici, e dal cui esempio si possono trarre diverse indicazioni operative. Il business digitale trasforma i tradizionali mercati in un ecosistema in cui le normali tempistiche, che separavano le fasi dell’ideazione, della progettazione, della distribuzione di un prodotto, diventano sempre più complesse; dove i diversi canali di contatto con il mercato si moltiplicano ma tendono anche a convergere dal punto di vista della capacità di presidio e controllo dei molteplici fattori di condizionamento; dove la user experience e la sua puntuale analisi sono il driver predominante delle decisioni aziendali, e determino – altro fattore differenziante rispetto al passato – un ciclo di feedback accelerato, se non istantaneo tra momento dell’acquisto, livello di soddisfazione e capacità di influire, chiudendo il cerchio, sul futuro sviluppo di prodotti e servizi.
Ma a questo punto, quali sono le differenze che separano da questi obiettivi le aziende ancora improntate su modelli precedenti all’economia digitale? Nello studio “The 2016 state of digital transformation”, gli esperti di Prophet, pur ammettendo l’esistenza di molte definizioni della digital transformation a seconda del punto di vista dei diversi protagonisti dell’ecosistema, si focalizzano in particolare sulla customer experience come principale motore di cambiamento (insieme, vale la pena di osservare, ad altri tre potenti driver: alle opportunità di crescita, l’aumento della pressione competitiva e l’evoluzione delle normative e degli standard), definendo il fenomeno come “il percorso di riallineamento degli investimenti in nuove tecnologie, modelli di business, e processi aziendali mirati a generare valore per i clienti e i collaboratori dell’azienda e a competere in misura più efficace nel contesto continuamente mutevole del mercato digitale.”
LA GIUSTA PRIORITÀ
Il cambiamento nel modo di fare affari, sottolineano gli autori del report, non è certo una prerogativa dell’era digitale, ma il forte ritmo di evoluzione delle tecnologie determina una sorta di darwinismo digitale che continua a impattare il business al seguito dei trend di cambiamento che la stessa tecnologia induce sulle società. Rispetto a una analoga indagine svolta due anni fa, sulla base degli input forniti da cinquecento aziende innovative, Prophet continua a rilevare una grande accelerazione nei progetti di cambiamento, ma contrariamente a quanto gli europei, sempre accusati di essere in ritardo, sono portati a pensare, anche negli Stati Uniti “le aziende che vogliono operare con successo nella digital economy si trovano davanti a sfide molto significative”. Al centro di questi sforzi, come si è detto, c’è la necessità di intervenire sull’esperienza di clienti che hanno saputo adeguarsi meglio ai cambiamenti indotti dalle tecnologie. “Molte organizzazioni, per esempio, faticano nell’individuare priorità di natura tecnologica e organizzativa, quel giusto equilibrio in grado di definire un percorso di cambiamento cooperativo e produttivo”. Sotto molti punti di vista, l’IT continua a essere determinante ma paradossalmente questo predominio rappresenta un ostacolo. Le aziende tendono a dare priorità alla tecnologia finendo per trascurare la centralità del cliente, e investendo in soluzioni di back e front end senza una precisa comprensione delle reali aspettative, delle preferenze, dei valori percepiti dalla loro clientela.
DA SOLA, LA TECNOLOGIA È LIMITANTE
Guardare alla customer experience esclusivamente attraverso la lente della tecnologia può essere limitante. Confrontando i livelli di evoluzione dei progetti di trasformazione dal loro osservatorio privilegiato, gli esperti di Prophet ricordano che due anni fa, quasi tutte le aziende analizzate avevano già avviato progetti mirati al miglioramento della customer experience, ma solo una percentuale minoritaria di queste aziende aveva elaborato una precisa mappatura del comportamento dei clienti nelle loro interazioni con l’azienda stessa, i cosiddetti “customer journeys”. A due anni di distanza, con la seconda edizione dello studio, si osserva un certo grado di progresso ma la tanto decantata centralità del cliente continua a essere soprattutto uno slogan, la metà delle aziende oggetto di analisi continua a essere carente proprio sulla capacità di definire con certezza il “viaggio” affrontato dai loro clienti digitali. La conclusione della ricerca Prophet è ancora una volta paradossale. “Spesso il management di una azienda si relaziona con il proprio brand o con il mercato in modo molto diverso dal loro stesso cliente. Non riuscendo a dare la giusta priorità allo studio del customer journey, le aziende faticano a comprendere i nuovi comportamenti delle persone e a perdere di vista gli insiemi di informazioni di cui hanno bisogno per prendere le decisioni giuste. Chi non riesce a far propri, a internalizzare i percorsi seguiti dal proprio cliente non riesce ad apprezzare completamente il potenziale che questa conoscenza può portare sul piano dell’ottimizzazione e dell’innovazione”. In questo senso, come stanno agendo i leader della trasformazione? Quali sono, in questo momento, le principali sfide sul cammino della trasformazione che gli innovatori più bravi stanno affrontando? Le risposte che arrivano dalle aziende sono chiare. Nel 71% dei casi, la sfida numero uno è la comprensione del comportamento e dell’impatto dei nuovi clienti, subito seguita dalla mancanza di dati o di ritorni che giustifichino i costi della trasformazione. Le problematiche di gestione dei rischi e gli obblighi di compliance sono percepite come un altro ostacolo, ma perdono gradualmente di peso i dubbi sulla disponibilità di risorse umane adeguate, sulla possibilità di cambiare la cultura aziendale in direzione di una maggiore agilità e sulla penuria di risorse economiche.
TRASFORMIAMO ANCHE LE METRICHE
Un punto essenziale quindi riguarda proprio la capacità di valutare in misura attendibile i risultati ottenuti con la trasformazione. Nell’approcciarsi alla digital transformation, molte aziende si affidano a metriche di tipo tradizionale come strumento di valutazione del successo dei nuovi investimenti. Ma se questo modo di procedere aiuta a inquadrare meglio i progetti nella cornice degli attuali paradigmi di business, lo stratega del cambiamento – come mette in evidenza il report – deve ripensare le metriche con l’obiettivo di tracciare i futuri sviluppi in ambiti come i nuovi canali di interazione, le esperienze, i contenuti, i dispositivi utilizzati. Sollecitate a definire quali sono i parametri più interessanti da osservare, le aziende mettono al primo posto la customer satisfaction, attraverso un indice convenzionale come il CSAT o con misure più innovative, per esempio il Net Promoter Score che cerca di misurare se e quanto l’acquirente di un prodotto si farà promotore dello stesso nella propria cerchia di conoscenza. Il traffico web generato viene sempre percepito come parametro fondamentale, seguito dalla produttività, dalle revenue e solo nelle ultime posizioni dalla customer experience e dal content analytics. Proprio su questi ultimi punti, suggerisce Prophet, con l’avanzare degli stadi di maturità della trasformazione si articoleranno le mosse di un’azienda che da un lato sa mettere in campo le misure giuste per il cambiamento, e dall’altro sa misurarne i risultati, fino a delineare una strategia di contenuto efficace nell’ottimizzare la soddisfazione dei clienti e, da parte dell’azienda, la conoscenza del loro comportamento.
Gli esperti di trasformazione si concentrano infine sull’imperativo “mobile first”, la parola d’ordine di una economia digitale le cui interazioni non avvengono quando siamo seduti a una scrivania, ma in tutti i momenti della nostra vita. Sono quelli che Google, in un manuale presentato come guida rivolta alle aziende che vogliono vincere nel mercato della completa mobilità, definisce “micro-moments”. Oggi, il percorso che porta ad acquistare o rifiutare un prodotto è come la pista cifrata della Settimana Enigmistica: composto da una serie di eventi, valutazioni e decisioni distribuiti nel tempo, nello spazio e nei dispositivi di volta in volta utilizzati. L’azienda vincente è quella che sa presidiare ciascuno di questi momenti, assicurando ogni volta una esperienza soddisfacente e una rilevanza agli occhi del consumatore, e sa anche “unire i puntini” attraverso un approccio strategico e analitico integrato che solo un completo abbattimento dei silos funzionali del passato può garantire.
FOCUS SU INFRASTRUTTURE E GOVERNANCE
Per concludere questo dossier, abbiamo preso in considerazione le infrastrutture IT coinvolte e l’ownership della trasformazione digitale del business. Secondo Sergio Patano, senior research & consulting manager di IDC Italia, la trasformazione digitale punta in sé e per sé a una riduzione della complessità di gestione degli ambienti, andando a eliminare i silos informativi e infrastrutturali che le evoluzioni tecnologiche passate hanno inevitabilmente creato. Per evitare però che questo accada anche nello sviluppo della trasformazione digitale – per esempio ricreando nel cloud pubblico, ibrido e nel multicloud quanto fatto precedentemente nel data center aziendale – le aziende adotteranno non solo soluzioni che automatizzino e ottimizzino flussi e processi di business ma anche e soprattutto soluzioni di gestione che abilitino l’IT a gestire attraverso un unico “cruscotto” ambienti multipli.
IL RUOLO DELL’INFORMATICA AS A SERVICE
Il modello “as a Service” che caratterizza il cloud sarà sicuramente uno dei principali driver per lo sviluppo del cloud all’interno delle aziende italiane. Se inizialmente il principale motivo per cui tale modello veniva preferito dagli end user era di tipo economico, in quanto capace di spostare gli investimenti da “capex” ad “opex”, oggi le aziende sono maggiormente attratte dall’agilità che esso consente di raggiungere. Secondo le ultime previsioni di IDC, anche in Italia nel corso dei prossimi anni il 40-50% di spesa IT verrà effettuata secondo questo modello, che diventerà uno dei prerequisiti fondamentali anche nel processo di scelta del partner tecnologico. Non solo, le survey evidenziano come il chargeback verso le LoB, basato sull’effettivo “consumo di IT”, sarà un ulteriore driver allo sviluppo.
IL MODELLO DI SVILUPPO OPEN SOURCE
IDC considera l’open source come uno dei principali fenomeni che stanno alla base delle più importanti innovazioni avvenute negli ultimi decenni e uno dei principali contributori al successo dei quattro pilastri su cui si fonda la terza piattaforma. Senza andare eccessivamente in dettaglio – spiega Patano – basta pensare ad Hadoop per il mondo big data, a OpenStack per la creazione di ambienti cloud pubblici e ibridi o ad Android per la mobility. L’open source quindi svolge un grande ruolo in questo contesto di continua ricerca della dinamicità in quanto oltre a cogliere i vantaggi di una community in costante espansione che contribuisce al costante sviluppo, contribuisce a portare all’interno delle aziende un livello di standardizzazione superiore favorendo l’interoperabilità con ambienti esterni.
LA SOFTWARE DEFINED ENTERPRISE
Ci stiamo rapidamente avvicinando a un futuro in cui l’ambiente IT aziendale sarà sempre più Software Defined (SD), parametrizzabile a piacere in tutte le sue caratteristiche e funzioni. Per “Sofware Defined” – mette in evidenza Patano – si intende la capacità di astrarre gli aspetti funzionali di una infrastruttura di calcolo dallo strato hardware, che diventa in pratica nascosto, portandoli verso il piano software, della programmabilità. Il che ci consentirà di avere maggior controllo, una orchestrazione pienamente dinamica delle risorse e una service delivery ottimizzata. Le soluzioni per una infrastruttura software defined rendono l’ambiente IT completamente agnostico rispetto alle attrezzature hardware impiegate, applicazioni e carichi di lavoro evolvono in maniera autonoma rispetto all’hardware sottostante.
Storicamente, le origini di quella che oggi viene chiamata infrastruttura Software Defined, risalgono alle soluzioni di virtualizzazione dei server basata sui cosiddetti “hypervisor”, gestori software che per la prima volta hanno reso possibile una prima fase di astrazione dell’ambiente informatico. Oggi, possiamo tranquillamente parlare di ecosistema programmabile includendo pertanto le funzionalità di rete SD, lo storage, gli aspetti gestionali dell’infrastruttura e l’ultimo anello della catena, l’orchestrazione della service delivery a partire da un numero variabile di servizi originati on premises o acquisiti dall’esterno in un modello cloud sempre più ibrido.
LA LEADERSHIP DEI PROGETTI DI TRASFORMAZIONE
La trasformazione digitale è uno sport di squadra, quindi tutte le linee aziendali IT e le Line of Business devono essere impegnate per un felice raggiungimento di tale obiettivo. Secondo IDC, il 40% dei CIO riuscirà a portare avanti iniziative di digital transformation solo grazie alla collaborazione con le LoB, favorendo il cambio culturale. Il CIO gioca un ruolo centrale, favorendo e abilitando questo collegamento interaziendale, in quanto ha una visione tecnologica e dei processi che abbraccia tutto l’ecosistema; comprende come il business opera a tutti i livelli aziendali e quindi è in grado di individuare i colli di bottiglia nei processi; conosce obiettivi e necessità tecnologiche delle LoB; comprende le potenzialità delle tecnologie digitali; ha esperienza nel guidare team che siano cross-funzionali.
COME GOVERNARE IL CAMBIAMENTO
Oggi più che mai, le aziende devono investire nella gestione dei propri talenti. Le aziende quindi devono puntare a creare, migliorare e mantenere le competenze del personale IT. Nel 98% dei casi, le aziende che ottengono i maggiori benefici in termini di business dall’implementazione di soluzioni converged IT infrastructures, cloud, e big data/analytics, hanno incorporato la formazione all’interno delle proprie strategie evolutive. Non solo. Le aziende devono misurare il successo dell’IT attraverso la lente degli stakeholder Lob. Gli SLA tradizionali tra IT e Lob non sono più sufficienti, gli aspetti che devono essere presi in considerazione sono aumentati e devono incorporare indicatori in grado di valutare se le evoluzioni IT sono state capaci di migliorare le esperienze dei clienti, generare nuovi flussi di entrate, rispondere rapidamente alle mutevoli condizioni di business e migliorare l’efficienza operativa per il business. E infine, le aziende devono saper sfruttare benchmark esterni per “alzare il tiro” su propri standard di performance. Formazione continuativa e SLA “aggiornati” non bastano, l’IT deve essere in grado di confrontarsi continuamente con l’esterno per valutare se il suo supporto al business è migliorabile.