Come lo smartworking sta cambiando le nostre abitudini abitative

Flessibilità e lavoro ibrido, a rischio le conquiste del periodo pandemico

La situazione sanitaria e l’adozione dello smartworking hanno modificato le abitudini abitative degli italiani; ecco i sorprendenti risultati di una ricerca che mostra come vivere in città abbia perso appeal

Da mesi stiamo gestendo la nuova normalità che gli effetti della crisi sanitaria ci hanno costretti ad affrontare. Abbiamo perso il rito del recarci in ufficio, guadagnando una nuova consapevolezza – non solo i dipendenti ma le stesse aziende e financo le amministrazioni pubbliche – lavorare da casa si può, bene e senza perdere in produttività.

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Certo, il cambiamento comporta anche un deciso scostamento da quelle che, un tempo, erano le preferenze abitative degli italiani. Lo dice la ricerca realizzata per Citrix dalla società di ricerche OnePoll su un campione rappresentativo di 1.000 lavoratori italiani.

I risultati della ricerca

I dati sono sorprendenti, non tanto per la natura delle preferenze ma piuttosto per la visione finale sul lavoro che la prossima nuova normalità – quella del fine crisi sanitaria – ci metterà di fronte. Infatti, il 43% degli intervistati si è espresso a favore di un ritorno in ufficio, quando lo si potrà fare di nuovo. La maggioranza sta meglio lavorando in smartworking che, anzi, considera condizione più produttiva (per il 45% del campione) e che offre una maggiore concentrazione (il 39%). Lavorare da remoto, insomma, piace di più perché consente di evitare lo stress del pendolarismo e il tempo perso nel viaggio verso l’ufficio, ma anche perché lascia più tempo libero per la famiglia e per coltivare i propri hobby.

Tanto che, per assurdo, si può affermare, stando ai dati espressi dalla ricerca, che la pandemia ha trasformato il mondo del lavoro di concetto riportando le persone al centro delle scelte aziendali, grazie alla tecnologia e a un’apertura del management verso il lavoro per obiettivi, più qualitativo e meno quantitativo. Più moderno, insomma, tanto che più che di smartworking si dovrebbe incominciare a parlare di modern workplace.

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Cambiano le abitudini abitative

Questa condizione ha però modificato la percezione del vivere in città e della sua utilità. Rispetto al periodo pre-pandemia, infatti, le persone non avvertono più la necessità di vivere in una grande città. Se prima il connubio tra luogo di lavoro comodo da raggiungere, servizi ed eventi facevano optare per una scelta di vita cittadina, ora, venendo meno la necessità di lavorare in un luogo definitivo e, purtroppo, essendo diventati virtuali anche gli eventi culturali e artistici, si prendono in considerazione scelte di vita differenti.

Stiamo vivendo un cambiamento rivoluzionario, che vede il lavoro sempre più slegato dal luogo fisico dove lo si svolge; le persone, infatti, stanno decidendo di trasferirsi (ben il 39% del campione intervistato) in centri urbani più piccoli e a misura d’uomo, alla ricerca di maggiore tranquillità ( 37%), laddove c’è un costo della vita più basso (36%) ma soprattutto perché questa fase della nostra esistenza ha insegnato loro che si può lavorare ovunque ci si trovi (un sorprendente 26% del campione intervistato).

Anche perché, possibilità tecnologiche di collegamento a parte, se prima del Covid buona parte dei lavoratori abbinavano carriera e grande città (il 55% degli intervistati), oggi solo il 36% mette in relazione ancora le due cose, mentre il 45% crede che vivere in località più piccole non faccia più differenza e, addirittura, un 13% del campione consideri negativo vivere in città.

Già, perché i vantaggi del trasferirsi in zone rurali sono tanti: per il 61% questo permette di utilizzare meglio il tempo abitualmente dedicato a viaggiare da e verso l’ufficio; per un 50% si può in questo modo condurre uno stile di vita più sostenibile e rispettoso dell’ambiente; per il 42% si può godere di più tempo da dedicare agli hobby e alla famiglia e, infine, per il 39% si può lavorare da casa sfruttando un ambiente più tranquillo.

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Soddisfatti, dunque, ma non rimborsati; nel senso che il 53% dei lavoratori intervistati pur di godere anche in futuro di questa opportunità lavorativa sarebbe disposto a rinunciare a parte dello stipendio.