Trasformazione culturale per sbloccare il futuro

Dalla trasformazione all’innovazione digitale in tre mosse

Che impatto ha avuto l’emergenza sanitaria sui piani di cambiamento digitale delle nostre imprese? La tecnologia ha risposto anche meglio del previsto, ma per il futuro dobbiamo imparare a essere tutti più “software defined”

Guarda la registrazione della tavola rotonda

TI PIACE QUESTO ARTICOLO?

Iscriviti alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato.

Le motivazioni alla base della digital transformation hanno sempre fatto riferimento a plausibili ma generici presupposti di business. La razionalizzazione dei costi, la capacità di pianificazione e adattamento a mercati molto mutevoli, la decisione data-driven, le diverse modalità sia nel lavoro in ufficio e in mobilità sia nella relazione con clienti e fornitori, il ruolo sempre più preponderante della robotica e dell’intelligenza artificiale nella produzione industriale come nel trattamento dell’informazione. Tutti argomenti forti, ma che in fin dei conti poco si discostano dalla narrazione dell’innovazione aziendale mediata dall’informatica, da un buon mezzo secolo a questa parte. Nell’epoca in cui la tecnologia veniva vissuta soprattutto in termini di replacement e di acceleratore di operatori, processi e modelli organizzativi ancora più consolidati.

Nel febbraio del 2020, la vera e propria deflagrazione della pandemia e l’inevitabile ricorso alle contromisure di lockdown, sono state per molte imprese una sorta di inatteso e forzato tuffo nell’acqua dove “non si tocca”, una presa di coscienza drammatica ma realistica. In conseguenza della quale molti hanno avuto modo di valutare l’innovazione nella giusta prospettiva. Di colpo la trasformazione digitale ci ha fatto percepire la sua natura abilitante, l’equivalente di un brevetto di nuoto in un mare fatto di regole molto diverse rispetto a situazioni fino a pochi giorni prima scontate: tipo la semplice possibilità di accedere al proprio ufficio, o di controllare da vicino, o come si dice oggi “in presenza” una linea di produzione.

IL BELLO DELLA VIRTUALIZZAZIONE

A partire dal lavoro, abbiamo compreso nel modo più plastico possibile quanto contassero fattori come la virtualizzazione delle infrastrutture, le piattaforme applicative SaaS e i nuovi modelli di sviluppo rapidi, basati su microservizi, gli oggetti smart e telecontrollabili, la piena mobilità della forza lavoro e la potenza dei tool di unified communication e collaboration, la capacità di raccogliere e mettere a frutto una grande varietà e quantità di fonti informative. Lo scopo della nostra discussione è proprio quello di cercare di misurare l’impatto che questi ultimi 12 mesi hanno avuto sulle strategie di trasformazione digitale nelle infrastrutture fisiche e virtuali, sull’adozione di architetture applicative avanzate, sulla valorizzazione dei patrimoni informativi, sui cambiamenti nei modelli di lavoro, produzione e organizzazione interna, relazione, ispirati a un impiego sempre più massiccio di automazione e intelligenza artificiale. Come sempre, ai partecipanti viene posta una serie di spunti su cui ingaggiare la discussione, scambiando le proprie recenti esperienze in materia di accelerazioni, mutamenti e future evoluzioni strategiche; o ragionando sulle modalità e le persone alle quali affidare la governance della trasformazione. L’argomento di un secondo giro di pareri abbraccia invece le principali problematiche affrontate (in aree come la sicurezza, le carenze infrastrutturali, la regolamentazione, la necessità di governo parallelo di sistemi e applicazioni legacy), i possibili rimedi; e, insieme, il grande tema della valorizzazione dei talenti interni e dell’ottimizzazione dei rapporti tra organismi in trasformazione e vendor di tecnologia e servizi di consulenza.

IL MANTRA DELLA SOSTENIBILITÀ

Nel decennio scorso, sotto la direzione generale di Luigi Gubitosi, la RAI aveva varato un rilevante piano di trasformazione che oggi prosegue e influisce sulle modalità di messa in onda dei programmi. Lo ha ricordato Massimo Rosso, ICT director del nostro broadcaster pubblico all’inizio del suo intervento, specificando però che la mentalità dell’azienda, il suo funzionamento è rimasto molto analogico. «Prima dell’otto marzo 2020, la logica era ancora quella del cartellino da timbrare e della scrivania, per tutti i ruoli. Siamo quindi andati da zero a mille con il DCPM di chiusura e ho dovuto coordinare uno sforzo di virtualizzazione che ha messo tutti in condizione di lavorare da casa, anche in ambiti come la conduzione o la regia». Chiusi gli studi la RAI ha portato invitati e pubblico in videoconferenza, inclusi i programmi che erano stati pianificati in modo convenzionale. La crisi – come spiega Rosso – è stato un formidabile acceleratore e a chi si interroga su che cosa resterà di questo sforzo, quando l’urgenza si sarà attenuata, il responsabile ICT risponde che il lavoro agile è destinato a rimanere ma che la digitalizzazione sarà l’unica chiave di lettura in grado di attuare il nuovo mantra della sostenibilità. «Non ci può essere digitale senza sostenibilità e neanche sostenibilità senza digitale. Se in passato sembrava che tutto dipendesse da infrastrutture ad alta capacità, da una larga banda diffusa, dalla formazione continua e dalla virtualizzazione, oggi dico che tutto questo va benissimo ma servono più che mai una infrastruttura dei dati, una anagrafica dei cittadini, una tassonomia dei contenuti». Non fosse per le dimensioni e la percentuale di dipendenti in smart working, l’esperienza interna a una fabbrica di sogni e informazione come la RAI non è molto diversa da quella vissuta in una realtà dell’industria alimentare, la francesce Lactalis, primo gruppo di latticini al mondo e titolare in Italia di marchi come Galbani. «Se il periodo che stiamo attraversando non fosse così triste, il virus meriterebbe un riconoscimento» – osserva Debora Guma, Group CIO di Lactalis Italia. «Perché ha accelerato politiche solo parzialmente attuate nelle aziende, inducendo un cambio di mentalità».

A CIASCUNO IL NOSTRO COMPUTER

Lo shock iniziale che si è registrato nelle realtà industriali, ha portato a un grado di flessibilità che neppure immaginavamo, facendo sì che i programmi di trasformazione potessero sedimentare». Ma ha anche messo in luce l’importanza di fattori che il tema del software defined everything ci aveva forse fatto dimenticare. Per Debora Guma, una delle grandi priorità iniziali è stata assicurare la disponibilità dell’attrezzatura di base del telelavoro: il personal computer. «Abbiamo preso subito contatto con i fornitori e per sopperire la mancanza di macchine abbiamo autorizzato il personale a portarsi a casa il desktop dall’ufficio». L’IT di Lactalis ha valutato troppo rischioso uno smart working basato su dispositivi non precedentemente verificati e ha accettato invece l’idea di “esternalizzare” fisicamente i PC dalle scrivanie dell’ufficio ai tavoli del salotto. Con la conseguenza non trascurabile di dover potenziare il servizio di assistenza per venire incontro alle richieste di collaboratori remoti alle prese con le idiosincrasie delle loro configurazioni. Come Massimo Rosso di Rai, anche Debora Guma concorda sulla necessità di avviare percorsi di cittadinanza e cooperazione digitale. «La collaborazione tra enti, provider e clienti è un elemento chiave per qualsiasi strategia di trasformazione. Trasformazione significa soprattutto condivisione».

Nella storia recente di Retelit, azienda leader in Italia nella costruzione di progetti digitali che coprono l’intera catena del valore dei servizi ICT (dall’infrastruttura al cloud, dalla rete agli applicativi), il lockdown ha coinciso con due importanti acquisizioni: quella di Brennercom, azienda ICT con un forte posizionamento locale in Trentino Alto Adige, e quella delle aziende di PA Group, che ne ha riorientato l’offering in senso applicativo, in particolare nell’area dei sistemi ERP e CRM e della system integration. In sostanza Retelit è un’azienda che si trasforma per supportare la trasformazione dei suoi clienti. Al tavolo, siede infatti il chief transformation officer Francesco Fontana. Nelle esperienze emerse nel corso dei primi interventi – oltre alle difficoltà di armonizzare in remoto i processi trasversali che avvengono in una organizzazione (a partire dalla stessa Retelit) – il grosso ostacolo è convincere tutti a compiere un salto culturale. «I nostri uffici sono da tempo rivolti allo smart working, con postazioni condivise e altri accorgimenti» – spiega Fontana. «Con il lockdown, il cambiamento più evidente ha però a che fare con la scarsa omogeneità dei livelli di digitalizzazione. Ci sono processi, per esempio, la fase di assunzione di un nuovo collaboratore, che non sono mai diventati veramente digitali». Come porre rimedio a tale disomogeneità? Trovandosi a operare in un contesto domestico – dove i documenti cartacei, che ancora dominano in molte situazioni aziendali, sono solo un problema in più, perché non è sempre possibile acquisire o trasferire i dati da e verso la carta – allora diventa più agevole imporre l’uso di uno strumento ormai banale come la firma elettronica remota. Una volta superati questi salti di percezione, anche grazie all’emergenza che ci ha confinati fuori sede – «qualunque percorso di trasformazione può proseguire in discesa» – sottolinea Fontana.

IL FUTURO IMMATERIALE

Per questa ragione, a proposito di figure apicali incaricate di rendere più fluido il cambiamento, Fontana esorta a intervenire con strumenti che possano ridurre le inevitabili soglie di resistenza alla trasformazione. «Al pari degli spazi di collaborazione, anche i processi di assistenza meritano qualche ripensamento per un futuro che è facile immaginare molto più variegato». I momenti creativi e decisionali – conclude Fontana – «avranno ancora bisogno della presenza fisica delle persone, ma non bisogna trascurare la forza abilitante delle infrastrutture di comunicazione e il ruolo della dematerializzazione, veri fondamenti di un cambiamento duraturo».

Leggi anche:  Il 5G e la rivoluzione wireless WAN. La rete mobile alla velocità del business

Dopo Milano, anche Torino si siede al tavolo di Data Manager per raccontare una storia di profondo cambiamento del suo aeroporto. Nonostante le dimensioni inferiori e il diverso mix delle componenti di traffico nazionale e internazionale, Torino Caselle è pur sempre uno scalo da diecimila passeggeri al giorno che ha vissuto una spettacolare contrazione nei mesi del lockdown. «È un settore difficile da inquadrare – spiega Salvatore Landolina, che come CFO, ICT e Digital & Innovation director riveste in Torino Airport una duplice funzione tecnologica e finanziaria. Alla base delle sue infrastrutture c’è già un groviglio di eccellenze ingegneristiche che generano valore alla società ma anche alle compagnie, ai retailer all’interno dello scalo, agli handlers dei servizi di terra, alle dogane e ad altri enti di Stato e all’ENAC che mette l’infrastruttura in concessione. «Parlare di digitalizzazione in uno scenario del genere non è banale» – osserva Landolina. «La partenza risale al 2017, con l’obiettivo di ragionare non solo sulla digital innovation ma soprattutto sugli aspetti della trasformazione e dell’automazione che non si esauriscono con la tecnologia». Tecnologia e innovazione non sono sovrapponibili – ricorda il manager – e all’interno di un sistema complesso come un aeroporto, inseguire il digitale fine a se stesso rischia di far perdere di vista il vero, obiettivo: «La puntualità, la sicurezza e la soddisfazione del passeggero-consumatore intorno al quale uno scalo sviluppa tutta la propria catena di valore».

UN PO’ MENO ANALOGICI

Dal punto di vista della governance – come riferisce Landolina – il progetto di Torino Airport ha vissuto un conflitto ben conosciuto a diverse altre realtà. Una percentuale significativa dei 340 collaboratori è stata dislocata in home working con successo, ma ha dovuto affrontare le contraddizioni di un lavoro che non poteva più beneficiare della prossimità fisica delle persone. «Il cambiamento della diffusa mentalità analogica ha beneficiato molto del lavoro di trasformazione che avevamo già perfezionato: una piattaforma di business intelligence condivisa, processi lavorativi ridisegnati, acquisizione di informazioni non più face-to-face» – spiega Landolina che, come si vedrà nel secondo giro di interventi che hanno animato questa discussione, ha una visione particolarmente human-centered, anche nelle strategie adottate per promuovere una trasformazione “dal basso”.

Allo stesso modo, nel caso di Autostrade, il cloud ha consentito di assicurare l’operatività del personale che non è vincolato a mansioni sul campo attraverso una massiccia attivazione di postazioni di lavoro domestiche. Il racconto di Simone Pezzoli, Group CISO di Autostrade per l’Italia è interessante per capire la lezione di trasformazione che realtà come la sua hanno ricavato per il futuro. «Autostrade sta vivendo una importante trasformazione a tutti i livelli. Sono state individuate diverse aree di intervento a fronte di un investimento triennale di 200 milioni, destinato a cambiare profondamente il paradigma di come si gestisce il business, intervenendo su aspetti prioritari come la sicurezza e più in generale su tutto ciò che può essere distribuito come prodotto». L’obiettivo della società autostradale – spiega Pezzoli – è diventare autenticamente data-driven, basando le valutazioni strategiche anche sull’analisi puntuale di dati precisi, trasparenti e facilmente consultabili da tutti.

È interessante anche approfondire la via di Autostrade alla governance di questa trasformazione. «Tutto questo – continua Pezzoli – comporta una macchina organizzativa ad hoc, che arruola oltre a un digital transformation officer, anche una responsabile del design per il coordinamento delle stanze di sviluppo agile. E’ stata infatti stabilita anche una Design Authority, di cui anch’io faccio parte come responsabile della sicurezza, che ha l’obiettivo di definire l’architettura target dei prodotti sviluppati ed implementare la filosofia di security by design all’interno di ogni stanza agile. Le iniziative della digital transformation non sono mai iniziative puramente IT: la console di risk management, per esempio, ha come product owner la direzione che si occupa di risk management a livello di gruppo ed è così per ogni prodotto sviluppato. La trasformazione di Autostrade per l’Italia si basa sulla condivisione delle informazioni, sullo sviluppo congiunto di soluzioni dove il digital è un facilitatore con un ruolo attivo nell’identificare la migliore soluzione per ottimizzare i risultati e la gestione. Non poteva che essere così in una società che da concessionaria, sta diventando un vero e proprio operatore di mobilità integrata».

NUOVI RUOLI, NUOVE CARRIERE

Ogni comparto ha insomma una sua anima tecnica, una definizione di minimum viable product che il product owner verifica a ogni passo, e un sistema di comunicazione interna molto affiatato. Un altro punto fondamentale – come rileva Pezzoli, chiudendo il suo primo intervento, è il processo di change management attraverso cui Autostrade individua le mutazioni che accompagnano la trasformazione tecnologica. La quale comprende anche, dal punto di vista delle risorse umane, la creazione di appositi percorsi di carriera per ruoli aziendali del tutto nuovi. Il cambiamento generalizzato degli schemi è il fenomeno osservato da Alessandro Fontana, head of sales di Trend Micro Italia, in tutti i racconti degli interlocutori seduti al tavolo virtuale. «In molte di queste storie, emerge un dato comune e importante. Per garantire l’operatività si devono accettare dei compromessi e, considerata anche la completa inversione del tradizionale paradigma dentro-fuori, direi che mai come in queste circostanze si percepisce l’importanza di una sicurezza realmente by design, l’unica a poter garantire la protezione anche quando il perimetro d’attacco aumenta». È necessario – come spiega Fontana – riuscire a fare sistema e collaborare affinché i cambiamenti introdotti nelle modalità e nei luoghi del lavoro, così come nelle nuove opportunità di cui godono i clienti di queste realtà non finiscano per creare nuovi silos e nuove barriere in un sistema di supply chain che deve viceversa diventare per tutti una catena del valore, sicura e protetta. «La digitalizzazione e la dematerializzazione portano a un abbattimento di barriere e di costi e all’aumento delle opportunità.

Lo si è visto con la straordinaria crescita della percentuale di italiani che utilizzano Internet. Ma ci vuole un controllo, una governance e una strategia d’insieme capaci di dare continuità» – conclude Fontana. Sul concetto di controllo è molto d’accordo anche Matteo Mancuso, chief information e digital officer di Engie Italia che racconta il grande lavoro di trasformazione digitale, messo in campo dalla filiale italiana della grande multinazionale francese dell’elettricità. «Forse, sono in controtendenza ma l’impatto del lockdown è stato molto impattante, proprio perché amplificato dal buon funzionamento delle piattaforme di collaborazione e dei sistemi» – afferma Mancuso. Il chief digital officer spiega di aver registrato addirittura un aumento della produttività con lo smart working. «Ma in realtà – rileva Mancuso – stavamo continuando a lavorare come facevamo prima. Per questo, la mia azione sulla digital transformation punta più sulla trasformazione che sul digitale. Questo significa creare percorsi di cambiamento culturale e change management rivolti alle persone e basati sulla capacità di collaborare tra le diverse anime di un’azienda dove la tecnologia entra nel business e viceversa».

RITROVARSI SENZA PAUSA CAFFÈ

L’aumento apparente della produttività – continua Mancuso di Engie Italia – era dovuto al predominio delle riunioni virtuali e alla scomparsa della pausa intorno alla macchina del caffè. «Solo dopo, abbiamo capito come queste pause fossero un momento fondamentale di relazione. Il lavoro fatto prima per abilitare le nuove forme di collaborazione è stato importante, la crisi lo ha accelerato. Ma in seguito, è scattata la voglia di recuperare certi aspetti relazionali che sono il vero fulcro della trasformazione». Proprio in questo senso – conclude Mancuso – «la dimensione della governance delle figure di controllo, è determinante per standardizzare certe modalità».

Leggi anche:  Trasformare i SOC in Cyber Fusion Center

La prima serie di interventi si è chiusa con l’interessante esperienza di Gruppo Montenegro, realtà imprenditoriale italiana leader di mercato nei settori alimentare e bevande alcoliche che sta affrontando un piano di trasformazione mirato a innovare e arricchire le complesse relazioni di questa azienda sia sui canali retail sia nel contesto B2B del settore Ho.Re.Ca che raggruppa le attività in ambito alberghiero e della ristorazione fondamentali per il business. L’incarico di digital transformation director assegnato a Enrico Clerici in Gruppo Montenegro è recente e coincide in pratica con l’inizio dell’emergenza sanitaria nel 2020. «In precedenza, il Gruppo aveva fatto grossi passi avanti dal punto di vista della mobilità, della gestione e della cybersecurity. Con il lockdown abbiamo intrapreso diverse azioni per potenziare i collegamenti in VPN e ottimizzare diverse situazioni di lavoro domestico legate alla variabile qualità della connettività». Le problematiche affrontate da Gruppo Montenegro – prosegue Clerici – sono in linea con quelle descritte dagli altri interlocutori. Facendo leva sui progressi fatti in materia di remotizzazione, il responsabile della trasformazione digitale ha insistito soprattutto sul corretto allineamento dei tool di collaborazione. Ma il nocciolo duro della sua azione riguarda i progetti di relazione, che Gruppo Montenegro ha deciso di portare avanti malgrado le difficoltà scatenate da una crisi che ha colpito in modo particolare il mondo della ristorazione. «Abbiamo posto i tasselli di un piano che riguarda i prossimi tre anni, contemplando non solo le tecnologie contactless e paperless, ma un cambio organizzativo e di processo fondato su più elementi». Gruppo Montenegro – come spiega Clerici – ha definito una strategia generale e una roadmap che consentirà di implementare un sistema di gestione del customer journey articolato sia in senso B2B sia sulla multicanalità B2C, andando a contaminare due mondi che prima erano separati.

IL DOLCE CAMBIAMENTO DELL’AMARO

Nel piano triennale di trasformazione di Gruppo Montenegro, sono anche stati individuati partner e figure di esperti di processo e business intelligence che contribuiranno a definire il passaggio verso i nuovi modelli organizzativi, insieme alla struttura IT dell’azienda e ai business partner. «La benzina e il lubrificante di questi ingranaggi sono il cambiamento culturale dell’intera organizzazione e la regia del change management che condurremo passo dopo passo» – conclude Clerici. La sammarinese Passepartout – società di software gestionale rappresentata al tavolo sulla trasformazione da Simone Casadei Valentini, che riveste la funzione di direttore  Progettazione, Assistenza e Formazione – può essere tranquillamente annoverata tra i pionieri della cultura informatica in Italia. Il ruolo di questi provider tecnologici nella prima grande fase di trasformazione digitale iniziata negli anni 80 con l’avvento del personal computer, ha avuto un impatto tanto più efficace quanto più focalizzato sulle piccole e medie imprese, caposaldo di un intero tessuto economico.

«È stato un anno in tutti i sensi particolare» – afferma Casadei Valentini. «Abbiamo registrato un netto aumento del carico di lavoro svolto a beneficio dei clienti e per questo dobbiamo ringraziare la scelta, tre anni fa, di una strategia di rinnovamento delle nostre infrastrutture di data center basata sulla collaborazione con uno dei cloud operator globali». Secondo il responsabile della progettazione in Passepartout, sono due gli eventi che hanno determinato un’impennata nella richiesta di soluzioni cloud anche nelle organizzazioni più piccole: l’obbligo di fatturazione elettronica e l’emergenza sanitaria del 2020. «L’aumento di richiesta è stato incredibile, fino a cinque volte rispetto ai livelli medi del passato, in particolare in attività come l’apertura di siti di e-commerce da parte di molte imprese che di colpo si sono sentite private di uno sbocco verso i tradizionali canali della logistica retail».

IL TUO DESKTOP È SULLA CHIAVETTA

Anche internamente, la pandemia ha portato un forte ripensamento dell’operatività di Passepartout, costretta a spostare in smart working quasi duecento collaboratori. A seconda delle funzioni svolte e delle rispettive necessità di interazione – videoconferenza o help desk telefonici – Casadei Valentini ha predisposto una serie di modalità di attivazione. Per esempio, nell’attesa di poter fornire ai collaboratori un PC portatile configurato in base alle direttive aziendali, Passepartout ha reso in un primo momento disponibile un’immagine USB del sistema operativo Linux con cui era possibile abilitare istantaneamente – e in connessione VPN – i computer di proprietà dei singoli dipendenti. «Tutto risale – come è stato richiamato più volte – all’esistenza di uno standard, la fatturazione elettronica, che nell’ambito del software gestionale ha costretto tutti a essere molto rapidi nella fornitura di servizi cloud, senza i quali non avremmo mai potuto soddisfare una tale richiesta di innovazione».

All’inizio del secondo giro di interventi dedicati alle aree di criticità e alla valorizzazione dei talenti interni e esterni, Massimo Rosso di RAI rivendica il ruolo fondamentale dei CIO nel portare avanti istanze di trasformazione che altrimenti rischiano di essere rigettate, scatenando una tendenza alla restaurazione a fronte di un business che spesso fatica a capire quanto la digitalizzazione abiliti al cambiamento. «Spesso siamo gli unici a essere davvero trasversali e siamo noi che dobbiamo imparare il linguaggio del business» – afferma Rosso che insiste su concetti come la visione sistemica, l’interdisciplinarietà e soprattutto l’interoperabilità dei dati. Rosso conclude chiedendo ai partner tecnologici un maggiore coinvolgimento su temi non puramente tecnologici, mentre da parte delle istituzioni afferma di diffidare dei manifesti politici che vogliono sostituirsi al project management guidato dai responsabili di infrastrutture e servizi.

LATTE E DIGITALIZZAZIONE APERTA

Per Debora Guma di Lactalis Italia, l’eccessiva dualità dei ruoli manageriali tecnologici e di business può rappresentare un ostacolo alla trasformazione. «La vera catena è questa distinzione che spesso ci viene imposta. Gli handicap sono rappresentati da un sottofondo culturale complessivo che non prevedeva una digitalizzazione spinta. A sua volta, questo ha comportato in molte situazioni una rincorsa dettata dall’assenza di un substrato su cui la digitalizzazione potesse attecchire. Tutti purtroppo continuiamo a pensare in maniera analogica» – ha detto la responsabile IT di Lactalis, che non si è mai tirata indietro sul piano della valorizzazione dei talenti e che si è impegnata nella promozione di una positiva cultura della open innovation. Parmalat in particolare, è entrata in una partnership con organizzazioni come l’Osservatorio startup del Politecnico di Milano o, in Francia, con l’incubatore Le Village di Crédit Agricole, finalizzata all’individuazione di progetti innovativi nel settore agroalimentare.

Leggi anche:  Sviluppo digitale? Il settore Horeca ha un Passepartout

Chiamato direttamente in causa da Massimo Rosso di RAI, Francesco Fontana di Retelit affronta le difficoltà della trasformazione su un piano interno, il cui obiettivo è metabolizzare la notevole espansione non solo rispetto allo spettro di offerta ma anche dal punto di vista dei percorsi mirati a ingaggiare i clienti con i giusti temi e le giuste modalità. La tecnologia, nella situazione attuale, può favorire strade che un tempo non venivano prese neppure in considerazione. «Le prese in carico oggi possono avvenire senza visitare fisicamente il cliente e d’ora in poi non sarà più considerato uno scandalo intervenire da remoto» – commenta Fontana. «Alcune criticità rimangono. Internamente, abbiamo portato avanti un piano di integrazione delle diverse aree di staff. Nella realtà, questo piano si è concluso ma rimangono tanti processi di fine tuning che richiederebbero, dal mercato, dati strutturati, tassonomie precise, che ancora mancano». Uno dei punti di forza del progetto di trasformazione in atto all’Aeroporto di Torino – racconta Salvatore Landolina – riguarda proprio il coinvolgimento che l’IT interna ha saputo coordinare insieme ai responsabili HR, operativamente più vicine alle compagnie aree, ai retailer e alle altre componenti dell’ecosistema aeroportuale. «Abbiamo organizzato la nostra innovazione digitale attraverso un approccio integrato in grado di unire la base organizzativa con i livelli del board» – spiega Landolina. Evitando così l’insorgenza di due macrolivelli: «Lo strato “alto” che pensa la trasformazione in senso troppo astratto e quello sottostante privo di un effettivo match con questa visione. Grazie alla mappatura accurata delle aree di intervento sono state create 22 figure di “digital agent” per aree come le comunicazione, le operation, le aree aviation ed extra-aviation e così via».

QUESTIONE DI COINVOLGIMENTO

Il digital agent – continua Landolina – «è diventato così un perno in grado di mediare la trasformazione da e verso i colleghi, condividendo margini di miglioramento e facendo emergere le zone di criticità nelle pieghe della strategia. Il digital manager ha il compito di ricevere tutti questi input, concordando a livello dirigenziale le relazioni con i fornitori e la ricerca di possibili soluzioni». Una formula che ha dato due grandi vantaggi: «Un altissimo livello di coinvolgimento, di voglia di rappresentare dal basso l’esigenza di cambiamento e la capacità di compattare questa volontà in una strategia che anche in futuro sarà caratterizzata da sostenibilità, sicurezza logica e salute fisica».

In certi casi – interviene Simone Pezzoli di Autostrade per l’Italia – la criticità maggiore è legata alle eterogeneità delle infrastrutture in evoluzione, soprattutto in contesti dove i temi classici dell’Information Technology si fondono con la sensoristica e le operation technologies, i cui strati di digitalizzazione sono molto variegati e svincolati dai processi di standardizzazione dell’IT. «È qui un altro luogo in cui cerchiamo di far attecchire il cambiamento» – precisa Pezzoli. «Al di là di questa governance interna, della ownership dei vari progetti, un altro punto di attenzione è la complessità dell’organizzazione e la gestione efficace degli svariati partner che ci aiutano dall’esterno». La questione della competenza rimane – però – il problema più costante e difficile da affrontare. «Aree come la cybersecurity o la data science non sono semplici da affrontare – conclude Pezzoli – ma dal punto di vista della fidelizzazione dei talenti rappresentano anche un sfida da proporre ai giovani talenti che, vale la pena di ricordarlo, non rincorrono soltanto obiettivi di benessere economico ma puntano più spesso a esperienze lavorative sfidanti e totalizzanti».

Se il dato è davvero il nuovo petrolio – osserva Alessandro Fontana di Trend Micro Italia – «il nostro primo obiettivo deve essere quello di mettere a frutto questa risorsa, portandola in superficie, estraendone valore e proteggendola. Occorre investire di più nelle persone, ma non dobbiamo mai perdere di vista le strategie della trasformazione. Abbiamo avuto un’accelerazione straordinaria verso il cloud, ma incontriamo tante difficoltà, dalla mancanza di competenze, all’aumento dei costi di “lift and shift” e spesso si tende ad immaginare il cloud come un “porto sicuro” a prescindere, dimenticando il modello di responsabilità condivisa. La sicurezza “in the cloud” non è automatica e bisogna che qualcuno se ne faccia carico». Per fortuna – conclude Fontana – «gli incentivi non mancano perché la consapevolezza che il digitale ci può aiutare ad avere una vita più facile, sana e inclusiva si sta sempre più consolidando».

UNA CORSA SENZA TRAGUARDO

La chiave di accesso a una felice relazione con i talenti interni e i fornitori esterni – secondo Matteo Mancuso di Engie Italia – è il coinvolgimento. «È opportuno sviluppare un set di attività o uno specifico programma che consenta da un lato di governare i propri talenti ingaggiandoli non tanto sui singoli progetti ma sugli scopi complessivi dell’azienda. Lo stesso vale – avverte Mancuso – per i provider di tecnologie e servizi, che devono essere visti come partner veri, accumunati da un unico obiettivo condiviso, fatto proprio da entrambi». Anche per il responsabile dei piani trasformazione di Gruppo Montenegro, questo è l’approccio giusto: «Col partner posso parlare di servizi e di qualità. Con i fornitori si parla solo di prezzi» – afferma Enrico Clerici. Occorre invece che i capi del business e dell’IT rivedano le loro priorità, i primi privilegiando il customer value rispetto al ritorno sugli investimenti, i secondi passando da obiettivi di mero efficientamento alla ricerca della massima adattabilità e velocità. «Molti pensano alla pandemia come al fatidico cigno nero che non tornerà, ma per chi produce e vende determinati beni, il vero cigno nero si chiama Amazon e domani potrebbe ripetersi. La velocità che abbiamo apprezzato durante l’emergenza è stato solo un playground del futuro modo di essere».

Una capacità di pensiero più laterale, una parziale “reinvenzione” degli obiettivi è il messaggio finale del responsabile della progettazione di Passepartout – e forse – dell’intera tavola rotonda. «Oggi, rendere disponibile l’expertise di un bravo fiscalista è normale» – afferma Simone Casadei Valentini. «Noi ci siamo focalizzati sulle nuove relazioni da costruire sul Web, sulla difficoltà di essere vicini al cliente, potenziando l’aspetto degli eventi e dei corsi online, non tanto sui classici temi della gestione ma su questioni di interesse generale, il cloud, lo smart working, il rilancio di settori oggi in crisi come l’alberghiero o la ristorazione». La crisi sanitaria, considerata da chi sviluppa software destinato a gestire termini e scadenze di legge che sono completamente saltati, ha richiesto un grande sforzo di adattamento. Molto di questo impegno è destinato a restare anche dopo: la flessibilità, la cura per il cliente, i contenuti aggiuntivi che bisognerà fornire. La trasformazione è una corsa che non ha traguardo.

Guarda la registrazione della tavola rotonda


Point of view

Intervista a Simone Casadei Valentini, direttore progettazione, assistenza e formazione di Passepartout: La cultura del gestionale As a service

Intervista a Francesco Fontana chief transformation officer di Retelit: Dalla connettività al processo di business

Intervista ad Alessandro Fontana head of sales di Trend Micro Italia: Sicurezza senza compromessi