Intelligenza artificiale, le promesse da mantenere

Intelligenza artificiale, le promesse da mantenere

“La tecnologia come motore dello sviluppo”. Forse, è la frase più trita e ritrita del 2023. Praticamente un omogeneizzato di pensiero per chi non ha più i denti per masticare altro. Verrebbe subito da chiedersi di che tipo di motore stiamo parlando, di quale sviluppo o quantomeno di quale carburante.

Già è vero “i dati sono il nuovo petrolio”. Altra frase che rientra nella top-five. Con la differenza che i dati sono destinati ad aumentare, il petrolio invece no. Naturalmente parliamo di greggio che ha bisogno di essere ripulito come i dati da dare in pasto all’intelligenza artificiale. Ma Brent, WTI, Dubai/Oman oppure OPEC Basket? Lievemente salato e con sentori di licheni come quello estratto nel Mare del Nord o più leggero e con note affumicate come quello texano? Con aroma di noce moscata e cumino come il petrolio estratto in Medio Oriente o denso come quello venezuelano?

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Il futuro di un Paese ha tre asset: lavoro, materie prime, capacità tecnologica. Internet è stato il catalizzatore di tre fenomeni collegati: unificazione dell’informazione, universalità dell’accesso, crescita esponenziale dei dati. Internet ha segnato uno spazio oltre la logica della sovranità territoriale di tipo nazionale che adesso torna a imporsi all’attenzione, perché dopo il 1989 non siamo stati capaci di costruire il mondo. L’Internet economy è controllata da un manipolo di 14 aziende private, solo un paio europee. La sovranità nella società delle informazioni si esprime in tecnologia (hardware, software, produzione, R&D); controllo diretto sui dati e localizzazione; competenze (istruzione). Il ritardo dell’Europa per aver sottovalutato la portata di Internet si trascina da decenni. La sovranità tecnologica si costruisce nel tempo e almeno per il momento resta incolmabile. Il piano di investimenti di Pechino 2020-2028 per insidiare il domino a stelle strisce ammonta a 1,4 trilioni di dollari. Le Big Tech hanno messo sul piatto 155 miliardi – miliardo in più, miliardo in meno a seconda di chi li conta – per consolidare la loro posizione. Gli investimenti Ue su ICT e industria europea ammontano a 50 miliardi. Ma con l’AI Act, l’Europa ha imboccato una strada diversa, giocando l’unica carta a disposizione.

Il controllo normativo è il modo di espressione della sovranità europea per condizionare la colonizzazione tecnologica: 400 milioni di utenti e 22% del PIL mondiale sono un motivo valido per adattarsi alle regole del Vecchio Mondo. L’Ue spera così di sfruttare questo tempo per rovesciare gli equilibri. Con Italia, Germania e Francia che lavorano per una strategia comune. Nel 2024 quasi la metà delle imprese metterà a budget programmi di sviluppo di intelligenza artificiale. Nell’ultimo anno abbiamo raccontato che la maggioranza dei progetti falliscono. Secondo i dati di Boston Consulting Group, il 66% dei manager intervistati è ancora incerto o insoddisfatto. Adesso, l’intelligenza artificiale promette di modificare profondamente le nostre abitudini professionali, sociali, relazionali. Ci troviamo nella terra di mezzo di quello che verrà ricordato come il grande balzo storico dell’inizio del terzo millennio.

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«Dobbiamo fare in modo che la rivoluzione che stiamo vivendo resti umana» – ha detto inaspettatamente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno. Ma quando si dice che l’AI è solo uno strumento e dipende dall’uso che ne faremo, c’è un grande rimosso: la tecnologia non è neutra. L’AI non è una clava e neppure una bacchetta magica. L’AI non è solo l’oggetto sotto la lente, è anche il soggetto che osserva. L’errore come spazio di creatività è una feature non un bug statistico. La potenza tecnologica messa al servizio del marketing solo per conoscere i gusti dei consumatori e anticipare i loro desideri è un vero spreco, anche di energia. La differenza tra scelta e decisione è sostanziale. Passando dal consumo delle cose alla produzione delle idee, la prospettiva cambia. E di molto. Se ne sono accorti gli editori (anche italiani), che stanno cambiando le regole sull’uso dei loro contenuti. E se ne sono accorte anche le grandi società di riassicurazione.