Oltre i modelli: l’importanza dei layer d’integrazione nel successo dell’AI

Oltre i modelli: l’importanza dei layer d’integrazione nel successo dell'AI

A cura di Mirko Gubian, Global Demand Senior Manager & Partner di Axiante

Nel dibattito sull’intelligenza artificiale domina l’attenzione su modelli e algoritmi sempre più potenti e sofisticati. Eppure, la differenza tra un progetto AI che fallisce e uno che genera valore reale risiede anche in un elemento spesso invisibile quanto sottovalutato: i layer di integrazione.

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La maggior parte dei Proof of Concept in ambito aziendale può “incepparsi” non per limiti tecnologici piuttosto per l’incapacità di far dialogare l’intelligenza artificiale con dati, applicazioni e utenti. Ecco che quindi anche un modello predittivo eccellente è inutile se non può accedere ai dati rilevanti in tempo reale o se le sue previsioni non generano ricedute concrete nei sistemi operativi oppure se l’interfaccia utente non permette ai responsabili di interpretare gli insight e quindi prendere decisioni informate.

Prendiamo ad esempio un sistema di previsione della domanda nel retail: il modello può analizzare con precisione storico vendite, stagionalità e trend di mercato, ma senza un layer di integrazione efficace rimane uno strumento isolato. Serve un’integrazione con il sistema di gestione dell’inventario per attivare automaticamente gli ordini ai fornitori, con il CRM per inviare degli sconti personalizzati ai clienti sulle referenze con aged stock, e con una dashboard intuitiva che permetta ai category manager di validare le previsioni e intervenire quando necessario. Senza questi layer, anche il modello più accurato non genera alcun impatto operativo.

I tre layer critici dell’integrazione

In particolare, l’integrazione deve toccare tre dimensioni fondamentali, ciascuna delle quali rappresenta un punto di contatto essenziale tra l’intelligenza artificiale e l’ecosistema aziendale. Trascurare anche solo uno di questi layer significa compromettere l’intero progetto, indipendentemente dalla sofisticazione del modello sottostante:

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#1. Layer di integrazione dati: il carburante dell’intelligenza artificiale

Immaginiamo l’AI come un motore ad alte prestazioni: senza il carburante giusto, al momento giusto, si ferma. Il layer di integrazione dati è esattamente questo: l’infrastruttura che garantisce ai modelli di AI l’accesso ai dati corretti, aggiornati e affidabili.

Non parliamo semplicemente di avere un Data Lake dove inserire tutte le informazioni aziendali. Serve un’architettura capace di orchestrare flussi continui di dati provenienti da fonti diverse – database legacy di vent’anni fa, API di servizi cloud moderni, file Excel ancora usati in certi reparti – e renderli compatibili tra loro. Significa anche costruire pipeline che validano automaticamente la qualità dei dati, che risolvono le incongruenze (quando il reparto vendite chiama “cliente attivo” ciò che il marketing chiama “cliente fedele”), e che mantengono traccia delle diverse versioni dei dataset nel tempo.

Solo così si può contare su modello che prevede, per esempio il possibile abbandono dei clienti basandosi su dati aggiornati all’ultima transazione, non su uno snapshot di tre mesi fa o un algoritmo di pricing dinamico che considera in tempo reale i livelli di magazzino, i movimenti della concorrenza e le condizioni meteo.

#2. Layer di integrazione applicativa: dall’insight all’azione

I dati sono la benzina dell’AI ma il vero valore dell’AI risiede nell’azione che queste tecnologie abilitano. Ed è qui che entra in gioco il layer di integrazione applicativa, ovvero ciò che trasforma un’analisi in un processo aziendale concreto.

Prendiamo un sistema di credit scoring basato su AI: il modello analizza centinaia di variabili e calcola il rischio di insolvenza di un richiedente. Ma poi? Senza integrazione applicativa, qualcuno dovrebbe copiare manualmente il risultato nel sistema di gestione prestiti, decidere se approvare la pratica, inviare comunicazioni al cliente, aggiornare i sistemi di reporting. Con l’integrazione giusta, invece, tutto accade automaticamente: l’output dell’AI innesca workflow nel sistema generando contratti pre-compilati notificati ai funzionari via email e su dashboard di rischio costantemente e automaticamente aggiornate.

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Questo layer richiede API solide che permettano ai modelli AI di “parlare” con ERP, CRM e altri sistemi aziendali, meccanismi di orchestrazione che coordinino azioni complesse su più piattaforme. Senza questo step, l’AI resta qualcosa di isolato dal business reale.

#3. Layer di interfaccia utente: dall’algoritmo alla fiducia

L’ultimo miglio – spesso il più trascurato – è quello tra l’intelligenza artificiale e le persone che devono usarla, fidarsi di essa e prendere decisioni basandosi sui suoi suggerimenti.

Un algoritmo di ottimizzazione della logistica può proporre un percorso di consegna più efficiente, ma se il responsabile dell’hub non capisce per quali motivi quel percorso è migliore, probabilmente lo ignorerà e seguirà la sua esperienza.

Per evitarlo, occorre che il layer di interfaccia utente renda l’AI collaborativa, progettando dashboard che non si limitino a mostrare numeri, ma spieghino il ragionamento dietro ogni raccomandazione con un linguaggio comprensibile. Significa anche permettere agli utenti di correggere l’AI quando sbaglia, creando un loop di feedback che migliora continuamente il sistema e di evidenziare la probabilità delle previsioni (“è valido al 95%” oppure “è un’ipotesi che può accadere nel 60% dei casi”) così che i dipendenti sappiano in che misura fidarsi degli insight o delle previsioni.

Riconoscere l’importanza dei layer è centrale ma perché l’attenzione all’integrazione diventi davvero operativa nei progetti di AI serve una riallocazione delle risorse, destinando una quota significativa del budget a questa fase cruciale, anziché concentrarlo quasi esclusivamente sugli algoritmi e i modelli, come tuttora accade. Ulteriori condizioni abilitanti sono l’allineamento organizzativo – nessun layer tecnico può funzionare se i reparti non condividono metriche, linguaggi e processi – e l’osservabilità end-to-end, ovvero la capacità di monitorare costantemente e nel tempo sia i layer d’integrazione che i modelli e il loro utilizzo concreto.

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