La Cina corre sull’AI applicata, gli USA inseguono la visione “forte”. E l’Europa? Osserva, regola, ma rischia di restare ai margini. Il capitale c’è, ma non sa dove andare. Serve una scossa
La corsa globale all’intelligenza artificiale generale (AGI) è cominciata, e ha già tutte le caratteristiche di una nuova guerra fredda. Solo che questa volta, il campo di battaglia non è lo spazio aereo o l’oceano Pacifico, ma l’infrastruttura digitale, i laboratori di ricerca e i data center più potenti del pianeta. A contendersi la supremazia sono Stati Uniti e Cina. In palio, non solo la leadership tecnologica, ma la possibilità di dettare le regole di un mondo sempre più plasmato dagli algoritmi. L’AGI non è una fantasia da romanzo di fantascienza. Ma potrebbe rappresentare il prossimo salto tecnologico, indipendentemente dai progressi del quantum computing. Stiamo parlando di sistemi capaci di apprendere, adattarsi e agire in modo autonomo su compiti diversi, con una flessibilità e una creatività paragonabili, se non superiori, a quelle umane. Secondo molti analisti, potremmo assistere alla sua comparsa già entro il prossimo decennio. E chi riuscirà ad arrivarci per primo potrebbe ottenere un vantaggio competitivo destinato a ridisegnare gli equilibri globali.
LA VISIONE AMERICANA E LA STRATEGIA CINESE
Cina e USA stanno investendo risorse senza precedenti e parliamo di centinaia di miliardi di dollari per conquistare l’AGI. La Cina si muove con rapidità, alimentata da una visione industriale pragmatica, un accesso privilegiato ai dati e un ecosistema hardware sempre più autonomo. Gli Stati Uniti, dal canto loro, puntano sulla ricerca accademica, su colossi privati come OpenAI e Google DeepMind, e su un contesto istituzionale che, pur frammentato, sta accelerando per non perdere il primato. Senza ovviamente tralasciare l’ecosistema startup e l’intero mondo del Venture Capital. Ci sono alcuni indici che segnalano che la Cina avrebbe già superato gli Stati Uniti in 57 delle 64 tecnologie chiave, dall’AI all’energia quantistica.
Tuttavia, a un’analisi più approfondita, molti paper provenienti dalla Cina si rivelano delle mere vetrine dimostrative, con scarsa solidità sul piano metodologico, senza contare il divario ancora marcato sul fronte dei brevetti. Quello che i numeri ci dicono però è che gli USA restano avanti comunque in termini di potenza computazionale, open source e alleanze strategiche. La differenza non è solo nei mezzi, ma soprattutto nella mentalità. La Cina investe in AI applicata a città intelligenti, veicoli autonomi, sanità predittiva.
Gli Stati Uniti, invece, inseguono una visione più “filosofica” dell’AGI. A tratti, trainata da narrazioni hollywoodiane. Eppure, questa visione si sta politicizzando. L’amministrazione Trump mira a ridurre i tempi di sviluppo dell’AGI a pochi anni, tra investimenti pubblici, semplificazione normativa e alleanze industriali. Ma non tutti sono entusiasti. L’ex CEO di Google, Eric Schmidt, ha criticato l’idea di un “Manhattan Project dell’AI”, temendo una corsa senza controllo. Anche Demis Hassabis, fondatore di DeepMind, avverte: «L’AGI potrebbe risolvere problemi globali enormi, ma va governata con responsabilità e visione condivisa». Senza un’etica comune, il rischio è di aprire il vaso di Pandora. La ricerca RAND ha modellato scenari futuri in cui l’AGI, se gestita male, potrebbe destabilizzare equilibri geopolitici già fragili. Attacchi preventivi e sabotaggi informatici rientrano tra le ipotesi possibili.
Come avverte Dan Hendrycks, direttore del Center for AI Safety: «Stiamo entrando in un’era dove la superiorità cognitiva non sarà più umana. E non c’è alcuna garanzia che i valori incorporati in questi sistemi saranno condivisi». La comunità scientifica internazionale chiede a gran voce standard minimi di sicurezza, verificabilità e auditabilità. L’iniziativa globale promossa dagli Stati Uniti, l’International Network of AI Safety Institutes, vuole porre le basi per un primo nucleo di governance multilaterale, ma la Cina per ora partecipa da osservatore. Su Reddit, molti ricercatori discutono tra di loro senza filtri. Alcuni osservano che «la vera corsa è tra cinesi in Cina e cinesi in America», riferendosi alla diaspora di talenti tech. Altri invece fanno notare chiaramente come l’accesso ai dati in Cina offra, rispetto all’Occidente, un vantaggio difficilmente colmabile. E c’è chi sottolinea che «il primo che raggiungerà l’AGI potrà usarla per migliorare la propria posizione di vantaggio, rendendo il distacco dagli altri Paesi esponenziale».
EUROPA A RILENTO, MA QUALCOSA SI MUOVE
Anche nel mondo della finanza, le preoccupazioni non mancano. Lindsay Gorman (German Marshall Fund) ha dichiarato al Johns Hopkins Tech Forum: «Chi controlla l’AGI potrebbe ridefinire l’economia globale. La posta in gioco non è solo tecnologica, ma monetaria e politica». I mercati lo sanno e il lancio di nuovi modelli cinesi come DeepSeek (ne abbiamo parlato ampiamente in un precedente articolo) ha causato turbolenze a Wall Street, mettendo sotto pressione le aziende americane simbolo dell’AI come Nvidia e Palantir. Intanto l’Europa, dopo aver firmato i dazi reciproci con Trump, osserva la situazione, con preoccupazione ma anche con un po’ di ambizione.
La Commissione ha infatti stanziato oltre quattro miliardi di euro entro il 2027 tramite il programma Digital Europe, ma la distanza in termini di capacità computazionale e capitali privati resta abissale. Solo nel 2023, le startup AI negli USA hanno raccolto oltre 50 miliardi di dollari mentre quelle europee meno di un decimo. La Francia prova a guidare, la Germania frena, l’Italia fatica a posizionarsi. Eppure, qualcosa si muove. L’annuncio del fondo CDP Venture Capital dedicato all’AI, con una dotazione iniziale di qualche centinaia di milioni di euro, potrebbe rappresentare una leva importante, soprattutto se accompagnato da co-investimenti istituzionali. Ma la vera svolta potrebbe arrivare da un altro canale spesso dimenticato, ovvero i fondi pensione. In Italia, il patrimonio dei fondi pensione supera i 200 miliardi di euro, ma meno del 3% è oggi allocato in venture capital e innovazione. Un’apertura strutturata verso startup deep tech, e in particolare AI, potrebbe rappresentare una fonte di capitali per rafforzare l’ecosistema.
In Europa, sono poche le realtà che si avvicinano ai colossi americani o cinesi: Mistral AI in Francia, Aleph Alpha in Germania e Synthesia nel Regno Unito stanno attirando capitali, brevetti e attenzione strategica. Il loro limite non è tecnologico, ma spesso finanziario e regolatorio. In Italia, alcune startup o progetti universitari emergenti si stanno facendo strada, ma servono meccanismi di crescita più rapidi. Il nodo resta la mancanza di capitale, soprattutto nella fase di scale-up. Alcune casse previdenziali professionali stanno già studiando questa possibilità, anche grazie alle aperture normative contenute nel nuovo regolamento della Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip) e nella proposta UE sul Listing Act. Secondo i dati di OECD e InvestEurope, nei Paesi nordici e nel Regno Unito oltre il 10% del capitale dei fondi pensione è allocato in private equity e venture. In Italia, siamo fermi al 2,9%. Ma l’interesse verso l’intelligenza artificiale, anche come strumento di modernizzazione industriale, potrebbe cambiare la percezione del rischio.
LA REGOLAMENTAZIONE
L’AI Act europeo è il primo tentativo al mondo di normare l’intelligenza artificiale. Ma molti temono che l’eccesso di cautela possa frenare l’innovazione rispetto a Cina e Stati Uniti, dove la sperimentazione è più libera. Serve più slancio, più capitale e soprattutto più strumenti per orientarsi. Per questo, una delle soluzioni più urgenti potrebbe essere la creazione di un’agenzia di rating indipendente per l’AI europea, per valutare startup, tecnologie e impatti, aiutando investitori e policy maker a distinguere valore reale da hype. Un sistema simile a Moody’s, ma pensato per l’innovazione: autorevole, trasparente e distribuito. In un contesto dove mancano risorse, tempo e capacità di analisi diffuse, la selezione diventa la chiave. Senza un meccanismo chiaro di validazione, il rischio è che le migliori startup europee vengano ignorate o assorbite da capitali extra-UE, lasciando all’Europa solo il ruolo di regolatore tardivo. E l’Italia, da sempre terra di talenti ma che parte già in ritardo, non può permettersi di perdere questa opportunità.