Watson di IBM parla anche un po’ italiano

Tutte da esplorare le affascinanti opportunità del cognitive computing di Watson, che ha visto all’opera nel suo sviluppo anche alcuni cervelli made in Italy

Workshop interessante e ricco di spunti, quello organizzato a fine febbraio da Eni e IBM presso la sede del colosso petrolifero alla periferia di Milano. Dedicato in primis ai CIO delle aziende italiane, l’evento aveva lo scopo di analizzare le possibili applicazioni industriali delle soluzioni di “cognitive computing” di Watson, il supercomputer targato IBM, che si è già distinto per i successi nell’ambito dei quiz televisivi e soprattutto della diagnostica media e dell’analisi dei rischi. Che le opportunità siano notevoli non pare esserci alcun dubbio: non è quindi per caso che IBM all’inizio di quest’anno abbia dato vita a una nuova business unit dedicata, con 2.000 specialisti concentrati a Manhattan, in un building in piena “Silicon Alley”, con un investimento complessivo di un miliardo tondo di dollari.

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Una nuova conquista del West

“Quello del cognitive computing è un po’ come la conquista del West, sia perché apre un campo del tutto nuovo, e infatti credo che costituirà la base dei futuri motori di ricerca, sia perché costituirà il comune denominatore di tutte le nostre attività future come IBM”, ha commentato Nicola Ciniero, amministratore delegato di IBM Italia, sottolineando anche con un pizzico di orgoglio la presenza nel team che si è occupato dello sviluppo del supercomputer di due italiani, Alfio Gliozzo e Roberto Sicconi. Quest’ultimo, laureato al Politecnico di Milano, ha lasciato IBM lo scorso anno, dopo una carriera quasi trentennale, per fondare TeleLingo, una startup con sede a New York, della quale è attualmente il CTO, che si occupa di tutoring online. Afio Gliozzo, laureato in filosofia a Bologna e Ph. D. a Trento, è invece ancora in IBM, dove opera come ricercatore e technical leader nel laboratorio di ricerca T. J Watson, oltre a essere docente presso la Columbia University di New York.

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Entrambi erano presenti all’evento, e hanno illustrato, insieme a Pietro Leo, executive architect e data scientist di IBM, tutte le peculiarità di un progetto affascinante, iniziata nel 2006 con l’IBM research project che vide la nascita di Deep Blue, il supercomputer che giocava a scacchi e che poi si trasformò in Watson, come noto in onore della famiglia che fondò IBM stessa, che nel 2011 balzò definitivamente agli onori delle cronache vincendo a Jeopardy!, un notissimo telequiz made in Usa che imperversa da quasi 50 anni, ma con un meccanismo capace anche di premiare chi dimostra intelligenza, a differenza delle tipiche trasmissioni di questo genere. Dopodiché, Watson è stato impiegato in compiti meno pubblicitari ma più concreti, per esempio nell’ambito medico e in quello finanziario, e oggi è in fase di sviluppo la “Watson Family”, che intende mettere il cognitive computing al servizio di tutti. Una vera peculiarità di Watson, secondo Leo, è il fatto che “per la prima volta nella storia dell’informatica non abbiamo semplicemente insegnato a un computer a rispondere: in questo caso, il sistema ha introiettato 200 milioni di pagine e ha cominciato a rispondere”. Insomma, il passaggio fondamentale di Watson è quello che vede superare la classica informatica programmabile a favore del cognitive computing, che ha tra l’altro la capacità di comprendere e di leggere il linguaggio naturale e soprattutto rispondere in linguaggio naturale.

Sviluppi concreti

Per capitalizzare al massimo sulle opportunità dischiuse dalle nuove frontiere del cognitive computing, IBM ha anche deciso di rendere disponibile Watson come piattaforma di sviluppo nel cloud, per permettere alla comunità mondiale dei fornitori di applicazioni software di creare una nuova generazione di app. Il luogo di condivisione sarà l’IBM Watson Developers Cloud, un marketplace sulla nuvola, che prevede che gli sviluppatori abbiano accesso alle API di Watson, per creare prodotti e servizi pronti per essere utilizzati. Tra le applicazioni possibili di cui si è esemplificato durante l’incontro, vi sono quelle a supporto dei contact center. Gianluigi Castelli, CIO di Eni nonché presidente del CIO AICA Forum, che è stato tra gli organizzatori dell’evento, ha precisato che tra i progetti auspicabili per Eni vi è anche un contact center che sia completamente demandato ai computer. Anche questo si inscriverebbe nel quadro della trasformazione in atto nell’ICT di Eni, che “per il prossimo piano 2014-2017 prevede una logica di Digital Enterprise – ha spiegato Castelli -. Le fasi sono essenzialmente tre: digital corporate, digital marketing e digital industrial, mentre i passi sono dematerializzazione, automazione e integrazione, per arrivare ad avere processi nativi digitali, cioè processi che nascono digitali fin dall’inizio, grazie agli arcinoti abilitatori tecnologici, cioè mobile, social, big data e cloud, ma con una miscela che dovrà essere accuratamente gestita”. Ma è proprio nei big data che si possono compiere passi rilevanti grazie alle tecnologie di cognitive computing, perché “gestire i big data significa avere un occhio molto attento a cogliere la loro complessità in termini di struttura, proprietà, volumi, varietà, velocità e soprattutto veridicità, visto che le fonti dei dati ormai sono tantissime e non si sa fino a che punto sono verificate, ed è in questo scenario che il cognitive computing ci può aiutare a risolvere le tematiche complesse correlate ai big data”, ha concluso Castelli.

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