Exit strategy

Raffaele Mauro, venture capitalist italiano, ci racconta la sua esperienza professionale, descrivendo sogni e progetti per il futuro. Una rapida immersione nel mondo dei venture capital per svelare le loro strategie di azione e per scoprire come poter realizzare un’exit strategy anche in Italia 

di Antonio Simeone

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Antonio SimeoneC’è un noto aforisma della borghesia francese che dice: “les voyages forment la jeunesse”. In pratica, per dire che guardare al di fuori delle proprie mura traduce i giudizi assoluti di valore in criteri di valutazione relativi. I confronti contribuiscono a sprovincializzare la testa e, relativizzando il mondo di ognuno, ne riducono l’ignoranza, l’insicurezza e soprattutto l’arroganza. L’Italia certamente è in trasformazione – almeno in veste teorica – ma lo è per davvero? Riuscirà il tessuto imprenditoriale dei venture capital a realizzare la “grande trasformazione” della miriade di start-up in entrata, in exit di valore? Abbiamo girato la domanda a Raffaele Mauro (laureato in economia, responsabile di Venture Intelligence per P101 Ventures ed Empedocle Fellow a Harvard), il quale non nega la possibilità anche per l’Italia di dar vita a un ecosistema dell’innovazione. Siamo ancora però in una fase embrionale. «C’è un grande divario tra la cultura che si sta diffondendo in Italia e la sua realizzazione a livello pragmatico sul piano economico. Basti pensare che a livello mediatico si sente sempre parlare di start-up e innovazione, ma andando a guardare i numeri concreti, si deve notare come il volume degli investimenti in Italia negli ultimi cinque anni non abbia subito una grande oscillazione (un sesto rispetto alla media europea) e come la situazione economica italiana risulti sempre in ritardo rispetto a quella di altri paesi europei, Francia e Germania in testa.

IL mercato delle exit – «Bisogna dare avvio a un miglioramento che deve coinvolgere tutti gli anelli della catena economica, partendo dal momento iniziale di generazione delle idee e dei conseguenti investimenti a sostegno di queste ultime, per arrivare poi alla realizzazione di imprese e al mercato delle exit» – ha detto Raffaele Mauro, sottolineando – però – l’importanza di fare impresa innovativa. E sono proprio le exit il punto cruciale che potrebbe essere di ostacolo alla realizzazione in Italia di un ecosistema dell’innovazione. Ciò che ci contraddistingue è l’abilità di avviare start-up e l’incapacità di gestire il problema delle exit, impedendo quell’effetto sistemico che utilizza le start-up quale strumento per rafforzare l’impresa esistente. Il mercato delle exit è veramente marginale rispetto a quello degli altri paesi perché risulta carente di quel sistema di studi legali, società specializzate, angel investors e operatori che forniscono alle start-up gli strumenti concreti per assicurare la loro crescita in modo tale da rivenderle e ottenere un profitto maggiore. «Completamente diversa la situazione della Silicon Valley, dove un’idea può facilmente tradursi in realtà grazie all’intervento di una serie di operatori professionali e specializzati. È stato stimato che circa il 40% degli investimenti di venture capital nel mondo avviene proprio nella Silicon Valley. I più grandi colossi come Microsoft, Apple e Facebook fanno a gara nell’acquisizione di start-up. In Italia, al contrario, mancano ancora gli elementi necessari a garantire un surrogato della Silicon Valley.

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Occorre inoltre – prosegue Raffaele Mauro – un adeguato ruolo di sostegno da parte delle istituzioni pubbliche che non dovrebbe sostituirsi all’investimento privato, quanto piuttosto contribuire a capitalizzare il sistema. Raffaele Mauro richiama come riferimento il modello economico di Israele, dove è stato creato un sistema di innovazione insieme agli investitori, senza – però – distorcere gli incentivi di mercato e contribuendo ad aumentare il volume di capitale nel sistema.

Cercare l’exit 

Il mercato italiano è quindi ancora oggi una piccola realtà rispetto al mercato globale. Si deve quindi diffondere anche in Italia la cultura insita nel mondo dei venture capital, cominciare ad adottare strategie di investimento volte a garantire lo sviluppo di imprese innovative. Raffaele Mauro ribadisce come l’obiettivo primario di un venture capital sia cercare l’exit, trovare quindi un oggetto che si possa comprare e rivendere. Per quanto si tratti di un investimento in capitale di rischio, è inevitabilmente presente un lavoro di dettagliata analisi empirica nella scelta delle start-up su cui investire, in modo tale da circoscrivere l’area di rischio. «Vince in primis chi riesce a superare il fattore scarsità». Gli investitori migliori spesso sono contrari e capiscono prima degli altri quali settori e quali aziende sono dotate di un forte potenziale di crescita.

Occorre, infine, mostrare a un venture capital sviluppi significativi, provare che vi sia un progresso misurabile attraverso diversi indici rivelatori del tasso di crescita di utilizzo di quel determinato servizio. Ci ritroviamo quindi ancora una volta in ritardo nell’appuntamento con il futuro. E non è azzardato dire che l’Italia ormai sia un paese per vecchi: sempre più alte sono le percentuali di giovani che subito dopo la laurea si trasferiscono all’estero in vista di migliori aspettative. Raffaele Mauro, nonostante le sue esperienze professionali a livello internazionale, non si è mai definito un cervello in fuga. Ha parlato semplicemente della necessità di vivere un continuo iter evolutivo di miglioramento e di sviluppo delle proprie potenzialità. «Si tratta di una contingenza attuale che non è destinata a essere immutabile. Il problema non risiede tanto nel fatto che le persone partano, quanto piuttosto nel fatto che non abbiano il desiderio di ritornare in Italia, arricchiti di ciò che hanno acquisito all’estero. In tutti gli altri paesi, la diaspora è sempre stata un grande fattore di sviluppo. In India – per esempio – lo sviluppo tecnologico è stato reso possibile grazie alle persone che sono partite e successivamente tornate in patria, perfezionate dalle esperienze maturate all’estero».

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Fare impresa in Italia

Qual è la formula vincente quindi? «Non esiste una formula magica che possa risolvere tutti i problemi» – risponde Raffaele Mauro. «Ci sono ancora molte questioni che devono trovare un’adeguata soluzione, basti pensare all’istruzione, alla criminalità organizzata, ai lunghi tempi della giustizia civile. Sicuramente, le start-up e lo sviluppo del mondo dei venture capital rappresentano un fattore fondamentale per poterci risollevare da questa crisi. Il fatto di fare impresa innovativa in Italia non può non essere un elemento essenziale per la crescita futura, altrimenti non sarebbe possibile nemmeno creare posti di lavoro qualificati e i laureati non troverebbero più imprese in grado di assumerli. Occorre innovare conservando – però – anche quello che già esiste. Fare impresa innovativa non significa guardare soltanto alle start-up, ma anche alla possibilità di crescita delle piccole e medie imprese già esistenti in Italia. Non sarà un risultato ottenibile immediatamente, fare impresa in Italia è ancora molto difficile, ma ciò non significa che non si debba tentare di promuovere l’innovazione anche in Italia».

È proprio nel processo di trasformazione, che stiamo vivendo e che si colloca all’ormai evidente fine di un ciclo lungo, che le start-up italiane possono pensare al successo nella futura, ma inevitabile fase di ripresa: un successo che sarà conseguito solo da coloro che si presenteranno a essa con un assetto a lungo preparato, tale da consentire di tenere testa a quei concorrenti che avranno saputo guardare al di là degli aspetti congiunturali che accompagnano sempre ogni mutamento strutturale. Per vincere la sfida, ci sono due strategie: quella che potremmo definire darwiniana, e quella preselettiva. “Provare e riprovare” contro “andare a colpo sicuro”. Ma siamo certi che noi tutti lo vogliamo davvero un nuovo assetto imprenditoriale dedito all’innovazione?

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