L’innovazione vuole una Banca

“Rifare l’Italia”. È quanto hanno chiesto a febbraio, alla Camera dei Deputati, il Premio Nobel per l’economia Edmund Phelps e un visionario della prima ora come l’imprenditore digitale e venture capitalist Gianluca Dettori. La proposta di un “fondo di fondi” istituzionale per stimolare la nascita di startup

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Là dove la sola forza di una cultura finanziaria e imprenditoriale non riesce a mescolare gli ingredienti giusti della ricetta dell’innovazione (nuove idee, conoscenza del mercato, dominio delle tecnologie, voglia di rischio e, naturalmente, un po’ di soldi per giungere al varo di una iniziativa commerciale), l’unica soluzione possibile è fare sistema. Fare sistema, tra pubblico e privato, per fare innovazione. Facile? Difficile? Non si sa, se almeno non ci si prova.

In Italia vogliono provarci anche con una legge dello Stato, un progetto bipartizan – due delle prime fautrici sono Alessia Mosca, deputata del Pd e Beatrice Lorenzin del Pdl – che dovrebbe portare alla costituzione di una Banca Nazionale dell’Innovazione. L’ennesimo ecomostro burocratico pensato per vaporizzare risorse, posare qualche prima pietra e non vedere mai un’inaugurazione? Tutto il contrario, pensano le persone dietro al progetto. Si tratta piuttosto di creare un meccanismo efficiente e snello, molto tecnologico a sua volta, ispirato ad analoghi modelli già sperimentati in nazioni come Israele, capace di coinvolgere non le solite piccole e medie imprese più o meno consolidate, ma di far partire nuove startup sfruttando risorse finanziarie che spesso ci sono già.

L’idea di una banca dell’innovazione, che tecnicamente somiglierà più a un “fondo di fondi”, a una banca di investimenti privata che a una banca tradizionale, è stata ripresa dalle due coraggiose parlamentari, ma arriva da una personalità molto autorevole, addirittura un Premio Nobel per l’Economia. A formularla in un recente articolo sulla Harvard Business Review è stato Edmund Phelps che lo scorso febbraio è stato chiamato a presentare il progetto – immaginato in origine nel contesto della stagnante economia americana che, secondo Phelps, da dieci anni a questa parte non ha meno problemi di noi quanto a capacità di innovare – di fronte al nostro Parlamento. Il 2 febbraio 2011, per iniziativa di Working Capital, il fondo a sostegno di nuove iniziative di business creato da Telecom Italia e guidato da Salvo Mizzi, Phelps ha aperto con la sua lectio magistralis i lavoro di “Per rifare l’Italia”, la Working Capital Conference inaugurata dal Presidente della Camera Gianfranco Fini.

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Insieme a Phelps sono intervenuti Gianluca Dettori, mitico innovatore italiano, inventore di Vitaminic e oggi nel board di Dpixel, fondo di venture capital che, all’interno del progetto Working Capital, ha l’incarico di gestire il processo di valutazione dei progetti presentati, svolgendo inoltre un’azione di advisoring durante tutto il programma di supporto.

La presa di posizione di Edmund Phelps a favore di una iniziativa “di sistema” non è casuale. L’economista ha ottenuto il Nobel nel 2006 proprio “per aver chiarito la comprensione delle relazioni tra gli effetti a breve e a lungo termine delle politiche economiche”. In una nazione come l’Italia, che sul piano delle politiche economiche è stata quanto mai carente negli ultimi due decenni, si potrebbe affermare che la visita di un esperto come Phelps equivale alla proverbiale visita del marziano a Roma di Flaiano.

Phelps ha esordito parlando del suo modo di concepire l’innovazione, un argomento che, ha detto, «esercita ancora un fascino difficile da capire, considerando l’alta percentuale di fallimenti tra le aziende innovative, un valore percepito come degno di attenzione e sostegno». C’è, secondo Phelps, un motivo profondo per l’alta considerazione che riserviamo alla capacità di innovare. «L’innovazione – ha aggiunto Phelps – è infatti il fondamento stesso del mio concetto di “buona economia”, un’economia che vive di nuove idee e nuovi prodotti». Un gioco virtuoso in cui Phelps individua almeno quattro protagonisti: uomini d’affari nello spirito di David Hume che offrono nuovi punti di vista e di ripartenza; imprenditori “Hayekiani” (da Friedrich Hayek, uno dei teorici del libero mercato) capaci di tradurre le nuove idee in nuovi prodotti; manager in grado di individuare nel mercato le aree di disponibilità all’accettazione di questi nuovi prodotti; e infine, ultimi ma non ultimi, consumatori più coraggiosi di altri che, come descrive l’economista indiano Amar Bhidé in un suo famoso libro sul ruolo dei consumatori americani alla base del successo dell’economia dell’innovazione, sono appunto disposti ad assumere il rischio di portarsi a casa un prodotto che potrebbe anche non avere un successo di massa. Quelli che più comunemente vengono descritti come “early-adopter”.

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Perché le pubbliche istituzioni italiane dovrebbero farsi carico di stimolare l’innovazione se questa dipende così strettamente dal ruolo di ideatori, imprenditori, manager e consumatori privati? Perché, risponde Phelps, la “buona economia” è presupposto di “buona qualità di vita”, le nuove idee, il dinamismo del rinnovamento, non si limitano a generare nuovi capitali, ma mettono il sale in quello che facciamo, in come viviamo. Come dire che se il denaro non dà la felicità, l’innovazione sì. E dunque, conclude Phelps, un governo pubblico che non cerchi di fare qualcosa per stimolare questo dinamismo in una economia ad alto reddito «non fa giustizia ai suoi cittadini».

Dalla filosofia generale del meccanismo che lega innovazione, economia, crescita, occupazione e felicità, si è passati con l’intervento di Gianluca Dettori al quotidiano limite della nostrana incapacità. Eppure, esordisce Dettori, l’Italia sembra avere tutte le carte in regola per competere nel campo dell’innovazione tecnologica e sui temi dell’imprenditorialità. «Abbiamo le infrastrutture, i denari e certamente non mancano talenti, cervelli e un ricco materiale genetico. Creatività e capacità di adattamento, doti essenziali di un buon imprenditore, sono alcuni dei tratti che caratterizzano la nostra cultura. Lo Stato spende miliardi di euro ogni anno per educare e formare le nuove generazioni. Abbiamo università, incubatori, centri di ricerca, laboratori, distretti e parchi tecnologici distribuiti su tutto il territorio. Un tessuto di aziende e distretti industriali, talvolta di assoluta innovazione ed eccellenza tecnologica. Abbiamo tutto. Ma niente sembra funzionare in termini di significativa creazione di nuove aziende, occupazione e sviluppo».

Come potrebbe cambiare le cose una Banca Nazionale dell’Innovazione, oltre che fungendo da aggregatore e riallocatore di risorse, ha osservato Dettori citando la dotazione dei fondi strutturali Europei gestiti dallo Stato Italiano per il periodo 2007-2013 che ha superato i 12 miliardi di euro? Agendo con leggerezza e trasparenza, ha detto tra l’altro Dettori tracciando la carta di identità del nuovo player. «Alla Banca Nazionale dell’Innovazione non servono sportelli fisici, ma una potente strategia digitale, un’agenda e una comunità in grado di connettere quelle persone che già oggi operano nell’innovazione imprenditoriale nel nostro Paese e quelle che vogliono partecipare. Dovrebbe usare Internet per funzionare come una “palla di vetro”, raccontando online le proprie attività, obiettivi, piani e persone».

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La speranza è che tutto non si esaurisca in una giornata trascorsa in presenza delle più alte istituzioni.