Makers in Italy?

Andrea LawendelLa rivoluzione è intorno a noi e può avere conseguenze inimmaginabili, come è avvenuto con il fenomeno della convergenza digitale. La nuova forma di convergenza che sta muovendo i suoi passi dall’informatica, ma sta invadendo anche i tangibili domini dei prodotti che di digitale possono non avere nulla, comincia a lambire quelle che sono le tradizionali roccaforti, i simboli stessi della nostra cultura industriale: la grande fabbrica. Per una nazione come la nostra, che ha grandi problemi di arretratezza sul fronte dei servizi digitali, ma è apparsa ultimamente anche molto rinunciataria quando si parla di atomi, subendo veri e propri tracolli in comparti come la meccanica e la chimica, il messaggio dell’innovazione diventa ancora più urgente. Ascoltandolo, potremmo cogliere una messe di opportunità. Ignorandolo, rischiamo un destino di involuzione ancora più buia e irreversibile di quella cui stiamo andando incontro per colpa dei nostri ritardi sulla tabella di marcia solo digitale.

Stiamo parlando della convergenza e dei sistemi di relazione e interconnessione che avvicinano sempre di più l’intangibile – le idee, il software, i progetti – al tangibile – l’hardware inteso soprattutto come prodotto materiale, non solo come computer. Stiamo parlando di un insieme di innovazioni concrete, facilmente reperibili sul mercato, che semplificano la realizzazione di dispositivi elettronici programmabili e che grazie a una serie di sensori e attuatori, permettono forme sempre più raffinate e potenti di interazione con la realtà. Stiamo parlando di nuovi materiali, nanotecnologie, ma anche di dispositivi relativamente “consumer” come le stampanti 3D, che accorciano drasticamente la strada – un tempo complessa, accidentata e terribilmente costosa – che porta dall’idea al prototipo e da qui alla produzione in serie. L’era del nuovo do-it-yourself, dei “makers” che guardano a qualsiasi oggetto come se fosse digitale o digitalizzabile, sembra attaccare alla radice il concetto fordista della linea di assemblaggio, della produzione in serie. 

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Il movimento dei makers prende le mosse da concetti come l’open hardware di Arduino, la scheda di microcontrollo programmabile proposta – guarda caso – da un italiano. Acquista forza, grazie all’incredibile effetto moltiplicatore dell’integrazione elettronica, che riduce le dimensioni, i consumi e i costi del trattamento dell’informazione e ci libera – con invenzioni come la logica cablata – dalla necessità di ricorrere ai grandi impianti di produzione di chip; o ancora grazie ai formidabili progressi compiuti dalla scienza dei materiali, dalle tecniche di fabbricazione su scale micro e nanometriche. Il movimento dei makers riesce a diffondersi sfruttando gli stessi modelli social adottati finora da chi fa pura informazione o puro servizio, ricorrendo per esempio a forme di finanziamento e azionariato diffuso in passato semplicemente impensabili. Siti web come Kickstarter, il successivo Indiegogo, o la recentissima CrowdSupply, sono la piattaforma ideale per promuovere le idee, stimolare i bisogni dei potenziali acquirenti, tradurli nelle somme di denaro relativamente piccole che servono per dar vita a una serie limitata, cento, mille pezzi che rappresentano il trampolino di lancio di una futura impresa industriale (che continuerà a essere basata sui paradigmi della fabbricazione on demand, senza mai passare per la proprietà di costosi impianti). La rete che prima univa le comunità di sviluppo software – oggi – muove idee di design, industrializzazione, capitali e materie prime avanzate. Un laboratorio diffuso, dentro cui prendono vita applicazioni e invenzioni concrete, progetti e oggetti da vendere e utilizzare nel mondo reale, non solo sullo schermo. Per una nazione povera di materie prime tradizionali e indebolita dal punto di vista della grande produzione industriale, sembra un sogno che si avvera. Sta a noi fare in modo che non diventi l’ennesimo incubo delle occasioni perdute. 

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