Se la responsabilità d’impresa non risponde all’appello


Marco Vitale, maître à penser riconosciuto dell’economia d’impresa non è uno che le manda a dire. Da cinque anni, l’economista di origini bergamasche che ha alternato insegnamento universitario e consulenza, presenza in consigli d’amministrazione pubblici e privati, anima le serate milanesi settembrine di Inaz per spiegare come l’impresa degna di portare questo nome è quella che porta valore per tutta la società e, per questo stesso motivo, dev’essere impresa responsabile. Convinto fino al midollo che le imprese farebbero bene a cercare la loro forza nell’originalità del prodotto e non nelle alchimie della finanza e dei business plan, aveva previsto che il modello economico imperante si sarebbe schiantato contro il muro come un’auto impazzita ben prima della crisi dei sub-prime. Chapeau.

La tribuna dalla quale questo satanasso del pensiero economico – come lo chiamerebbe Kit Carson, il “pard” di Tex Willer – non è casuale. Linda Gilli, la presidente della società di software e servizi per la gestione del personale, non perde occasione per ricordare che un’azienda, in fondo, è un progetto, quindi portatrice di una cultura. E quando, l’altr’anno, subito dopo la nomina a Cavaliere del Lavoro da parte del Presidente della Repubblica, ha voluto celebrare i 60 anni di vita dell’azienda, non ha comprato spazi pubblicitari o invitato i clienti a una festa: ha promosso la distribuzione gratuita in 300mila copie di un’edizione della coeva Costituzione insieme con il Sole 24 Ore.

TI PIACE QUESTO ARTICOLO?

Iscriviti alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato.

Gli specchietti per allodole di tanti report

Lo scorso settembre, Vitale non ha perso l’occasione per ricordare che «non si è mai parlato tanto di responsabilità d’impresa quanto negli ultimi dieci anni, ma non si sono mai manifestati tanti casi di irresponsabilità come in questi dieci anni». Bilanci sociali e rapporti di Corporate social responsibility (Csr)? Meglio lasciar perdere…

La coincidenza del palco offerto da un’azienda di software e servizi informatici merita qualche riflessione in più. L’idea di un It che, per sua natura, avrebbe dovuto assicurare trasparenza, dialogo, informazione e quindi correttezza nell’impresa, in questi anni ha subito non pochi scossoni. Molti di questi in Italia, dove le Procure hanno avuto il loro bel daffare, dai crack delle aziende che promettevano miracoli della bolla Internet, ai casi più recenti di Eutelia (che aveva esteso le sue ali anche su Bull e Getronics) o Omnia Network. Per non parlare delle intercettazioni di Telecom Italia e dello scandalo dell’anno – quello delle “frodi carosello” a colpi di traffico inventato transitante sull’estero di Telecom Italia Sparkle e Fastweb – fino alle inchieste che hanno riguardato Finmeccanica e sue controllate come Selex o Elsag Datamat.

Leggi anche:  Intelco presenta la sua Fabbrica del Futuro

Indipendentemente dagli accertamenti finali e dalle conclusioni dei procedimenti, queste vicende portano anche a riscrivere qualche pezzo di storia dell’Ict recente. Come valutare per esempio una Fastweb che nel bilancio 2003 dichiarava ricavi per 548 milioni di euro, se le stime emerse del giro d’affari attribuibile al business fasullo delle Phuncards ammontava da solo a 200 milioni? E Swisscom avrebbe acquistato la società milanese (i cui massimi amministratori ricevevano cospicui bonus in funzione non dei risultati, ma dei dividendi, anche se la società era in perdita) se avesse avuto conoscenza della portata dei fatti?

Bastano le leggi?

Se la legge 231 sulla responsabilità di impresa e amministratori, che è del 2001 ed è un altro dei miti sconfessati, non ha impedito che si verificassero fatti di questo genere, le aziende dell’Ict italiane non sembrano brillare particolarmente nemmeno sul versante della responsabilità sociale. Certo, ci sono le grandi aziende che si muovono. Telecom Italia e Vodafone, nelle telecomunicazioni, hanno un vasto sistema di reportistica. La Fondazione Telecom Italia ha in cassa risorse milionarie per diversi progetti, dalla dislessia alla ricostruzione dell’Abruzzo (200 mila euro solo per questo), al recupero del patrimonio-artistico culturale con il FAI. Anche IBM ha concentrato, fin dal 1990, le sue iniziative italiane in una fondazione con attività distribuite tra la scuola, il sociale e il patrimonio artistico. IBM è, a livello globale, l’azienda del settore che fa un uso più avanzato e complesso di quest’approccio, anche con evidenti ritorni sul business in termini di immagine e relazioni. Se da una parte propone il modello dello “Smart Planet”, che traina iniziative dalle smart grid alle reti intelligenti, dall’altra propone lo Studio Global Chro, rivolto ai responsabili risorse umane: nel 2010 sono stati 700 i responsabili intervistati in 61 Paesi.

Leggi anche:  Credifriuli al centro e per le imprese anche della montagna

Microsoft, una delle non molte aziende ad avere una struttura e un dirigente per la Csr, è tra l’altro impegnata nei programmi a sostegno della famiglia e quindi delle madri che lavorano (tra cui un asilo aperto anche al territorio). L’elenco del settore, però non sembra andare molto oltre. Tutto sommato, è più facile trovare iniziative in settori come l’alimentare – e naturalmente il finanziario – che nell’Ict, forse perché le case-madri ormai non stanno più in Italia.

Eppure, la percezione della sensibilità verso i temi della responsabilità sociale possono fare bene anche al business. A testimoniarlo è l’attenzione di aziende come Acer e Asus, i due giganti taiwanesi che negli ultimi due anni si sono cimentati in favore dei giovani e del mondo scolastico. In questo caso, si tratta di iniziative legate anche al marketing di prodotto. Donazioni a scuole, programmi nazionali ed europei (per Acer in collaborazione con l’European SchoolNet sono state 60 classi in sei Paesi tra cui l’Italia) per testare l’impatto dell’uso dell’informatica in classe, incentivazioni per l’acquisto di netbook da parte dei giovani “under 27” fanno parte di queste iniziative.

Responsabilità verso le persone e l’ambiente

Ciò cui i “brand” dell’Ict sembrano tenere particolarmente è invece l’immagine di “impresa green”. Per qualcuno, come Fujitsu Technologies (che probabilmente deve ringraziare per questo la cultura “verde” di Siemens, ex partner dell’azienda), la materia del risparmio energetico è un tema costante da anni. La problematica dei consumi è un argomento “caldo” (appunto) da sempre nel mondo dell’It e dei data center, anche perché è noto l’aforisma secondo cui tradizionalmente si spende più energia per raffreddare i computer che per “tenerli accesi”. Lo sviluppo di nuove architetture (rack e blade) ha portato ad aumentare i consumi per metro quadro, ma i progressi nella microelettronica da una parte e quelli nella virtualizzazione dei server hanno permesso di tagliare significativamente calore prodotto e bolletta elettrica.

Leggi anche:  L’eredità di Enzo Ferrari, la corsa continua

Anche nelle telecomunicazioni il tema dei consumi è diventato rilevante. Anche perché uno dei problemi, soprattutto per le reti mobili, è quello dell’alimentazione delle stazioni radio-base. Queste ormai sono più di 2 milioni nel mondo e se oggi la rete mobile conta già più di 4 miliardi di utenti, il prossimo miliardo si svilupperà soprattutto in aree emergenti, dove non è facile portare l’energia. I sistemi a gasolio inquinano e costano: da qui l’interesse per le energie alternative. Anche in questo caso, responsabilità per l’ambiente e obiettivi di business possono coincidere. In fondo, guardate i taxi di Milano: moltissimi di essi sono delle Toyota Avensys, ovvero uno dei primi modelli su larga scala di vettura con propulsione ibrida: l’attenzione per l’ambiente fa risparmiare gli utenti e migliorare la posizione sul mercato.

Sembra quasi evidente. Ma chi è disposto a metterci la firma? L’indagine condotta nei mesi scorsi presso un campione di aziende italiane di tutti i settori da RGA è piuttosto sconfortante. L’Italia figura al 26esimo posto su 31 per attenzione ai temi Csr, l’attenzione è principalmente concentrata su argomenti come mercato e relazione con il cliente, mentre la responsabilità sociale ha una valenza poco più che reputazionale. Secondo un’indagine recente dell’Economist, i vantaggi della responsabilità sociale sono ben altri: capacità di attrarre talenti, migliorare le relazioni con i clienti, aumentare il valore aziendale e sostenere la profittabilità. Come dire: ciò che altrove è sostanza, da noi passa per lo più per condimento.