Perchè i venture capital italiani non bevono caffè?

Le startup di successo finanziate dai grandi venture capital non sono solo digitali, o più propriamente tecnologiche. Qualcosa è cambiato nel panorama delle nuove imprese

Ebbene no. Le startup di successo non si possono più definire meramente digitali o più propriamente tecnologiche. è cambiato qualcosa nel panorama delle startup. Pensiamo al caso di Blue Bottle Coffee, la catena di caffetteria che ha lanciato la sfida a Starbucks. Sicuramente ne avete sentito parlare. Si tratta di una startup californiana che in meno di cinque anni dal primo round è stata rilevata per una quota pari al 68% da Nestlè a un prezzo di 500 milioni di dollari su un valore della società di ben 700 milioni. Da un singolo bar di Oakland, in California, è diventata una catena di lusso con attenzione ai dettagli e 55 punti vendita, di cui sei a Tokyo. Sì. Quasi un unicorno si potrebbe definire.

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«Il mio obiettivo come amministratore delegato è assicurare un futuro sostenibile per Blue Bottle Coffee» – ha dichiarato l’amministratore delegato di Blue Bottle, Bryan Meehan. «Sono lieto di poter lavorare con Nestlé per un approccio di lungo termine per diventare un leader globale». L’obiettivo è mantenere comunque l’autenticità delle caffetterie Blue Bottle, rinomate per il loro stile pulito di ispirazione giapponese, e non compromettere la qualità. Ma andiamo con calma e procediamo con ordine. «Viene vista come l’anti-Starbucks, ma la startup Blue Bottle Coffee sta trasformando i suoi piccoli caffè artigianali in soldoni». Così esordisce il Financial Times con un articolo su Blue Bottle Coffee nel 2015. E come dargli torto, quando pochi giorni prima, la startup aveva chiuso un round di 70 milioni di dollari con il grandissimo fondo di venture capital, Fidelity? Già. Ai precedenti investitori – Morgan Stanley, i grandi venture capitalist tecnologici quali Index Ventures e True Ventures, i fondatori di Instagram e Twitter, e Bono degli U2 – è stato riconosciuto un profitto pari a circa 20 volte l’importo dell’investimento di partenza. Ma le critiche ovviamente non mancano sia da parte dei followers della startup sia da parte dei giornalisti di finanza, sotto il profilo della convenienza e stabilità dell’investimento.

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Il valore dell’artigianato e della piccola industria

Quanto ai followers, sicuramente l’acquisizione da parte di Nestlè rischia di compromettere tutti i seguaci della startup convinti del valore dell’artigianato e della piccola industria. Tuttavia, secondo gli studi di settore e le ricerche di mercato, i marchi di artigianato acquisiti da importanti aziende tendono a non soffrire troppo nel lungo periodo. Secondo un recente studio UBS, il 45% dei bevitori americani crede che l’indipendenza non importa quando scegli una birra artigianale. Ciò che conta è la qualità. Gli stessi principi si applicano quando si tratta di caffè. «Gran parte della reazione negativa dei media sociali si è concentrata sui timori che l’acquisizione possa determinare un peggioramento della qualità del caffè, cosa che ritengo sia una paura completamente infondata» – ha commentato Matthew Barry, analista di bevande presso la società di ricerca di mercato Euromonitor, a Business Insider. «Nestlé ha acquistato questo marchio perché sa che ha una forte reputazione per la qualità».

Quanto alla natura profittevole o meno degli investimenti nel settore food, Gillian Tan e Shira Ovide di Bloomberg hanno più volte sottolineato come «i venture capital con Blue Bottle Coffee hanno vinto una scommessa e molte altre ne vinceranno, ma non per questo devono concentrare gli investimenti e modificare i loro modelli di business per finanziare caffè e formaggi alla griglia, nonostante credano nel marchio e negli imprenditori che stanno sostenendo». Insomma, sembra che lo scetticismo non manchi. Il concetto chiave è che i venture capital dovrebbero investire su startup tecnologiche, altamente rischiose ma con margini di rendimento elevatissimi. Probabilmente si dovrebbero cimentare nell’ardua impresa di trovare la nuova Google. E per le altre startup?

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I venture capital dovrebbero considerare l’avvio di fondi specializzati e distinti che consentano agli investitori di esporsi su caffè, materassi oppure occhiali. Prodotti comuni. Altrimenti dovrebbero accettare di considerare una simile tipologia di investimenti con i loro conti personali. Ma la vera preoccupazione di base risiede proprio nel successo di startup non tecnologiche in quanto ciò implica la necessità di un cambiamento. Cambiare modello di investimento può andare bene qualora sia un evento raro e del tutto eccezionale. Ma il problema è che ognuno di questi successi attribuisce quella fiducia necessaria che porta a cercarne di simili e con ambizioni sempre più grandi. Quando questo accade, il risultato è inevitabile. Sicuramente ci saranno più fallimenti sulla scia di Juicero Inc.

Il made in Italy alla ricerca di un modello di business

Il problema è che per quanto ci provi, l’Italia del caffè e del buon cibo non riesce a competere con le food startup straniere. Quali le cause?

Secondo Paola Bonomo, è necessario riflettere e prendere consapevolezza di due aspetti:

1) L’invenzione di nuovi formati retail è qualcosa che in Italia non si fa più da un sacco di tempo. Ci si limita semplicemente a importare quelli altrui. Il campione italiano dell’innovazione retail è senza dubbio Antonio Percassi. Negli anni 80, c’era Benetton, negli anni 90 KIKO, negli anni 2000 Zara, più di recente WOMO, Bullfrog, Soulgreen… Però a Percassi non interessava la exit: lui ha 6 figli di cui 5 sono coinvolti nel business e quindi qualsiasi catena di caffetteria avesse fondato non l’avrebbe mai ceduta a Nestlé, perché non gli interessava!

2) Se si guarda l’esempio di Blue Bottle Coffee, ma anche di Dollar Shave Club – ceduta a Unilever per un miliardo di dollari l’anno scorso, quindi unicorno a tutti gli effetti – è possibile rendersi conto di come le acquisizioni di queste aziende siano trainate dalla consapevolezza che sul mercato USA ormai comandano i Millennials, e che i canali tradizionali stanno implodendo sotto i cannoni di Amazon. Occorre quindi dotarsi di un qualche e-commerce play con un pubblico Millennials molto fidelizzato tipo “lovebrand”. Sia Dollar Shave sia Blue Bottle Coffee corrispondono a questa descrizione.

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Un problema di domanda

Quindi, non è tanto un problema di risorse finanziarie quanto piuttosto di domanda. «In Italia, già di Millennials ce ne sono molti meno in percentuale della popolazione (bassa natalità da decenni) e quei pochi che ci sono hanno basso potere d’acquisto». Queste le parole conclusive di Paola Bonomo. Come non essere d’accordo? Sembra che in Italia siamo molto competenti a creare prodotti fisici, spesso i migliori del mondo, ma non siamo molto bravi a venderli. Mi viene in mente soprattutto il successo dell’imprenditrice americana Amy Errett: inizia acquistando i prodotti dall’Italia, realizzando il packaging, il brand, il sito, il marketing e alla fine il risultato del valore in Italia è di 1 dollaro mentre negli Usa è di 9 dollari.

La verità è che ci ostiniamo a portare avanti un modello B2B piuttosto che trovare il coraggio di passare a un sistema b2c. Perché «se effettivamente il prodotto è di ottima qualità, come non ho motivo di dubitare, fa veramente arrabbiare che la fabbrica italiana lo dia via in white label agli americani! Non siamo bravi su marketing e vendite!». Essendo Blue Bottle Coffee soprattutto un’invenzione di marketing, sembra difficile a questo punto che possa sorgere anche da noi. I venture capital italiani non bevono caffè. Quelli americani non dovrebbero bere caffè, citando Gillian Tan e Shira Ovide di Bloomberg, ma in ogni caso saranno sempre affamati. Questo è poco ma sicuro.