Social network e reputation. Quando l’azienda è una casa di vetro

Un post pubblico su Facebook può costare il posto di lavoro

Come tutelare l’immagine e la reputazione aziendale senza ledere la libertà di espressione dei dipendenti, attraverso l’adozione di policy per prevenire i danni

Il dipendente di Domino’s Pizza che pubblica su YouTube un video in cui “contamina” il cibo prima di metterlo sulla pizza?  O l’emulo di Burger King che pubblica un altro video in cui calpesta la lattuga del famoso hamburger? Solo problemi d’oltreoceano? Non si direbbe, visto che l’anno scorso ha fatto il giro del mondo la notizia di due dipendenti della catena Lidl che, a Follonica, avevano chiuso due donne rom in una gabbia e caricato il video della “bravata” su Facebook. Pochi mesi fa, veniva pubblicato il video dei dipendenti di una nota catena italiana di ristoranti che spruzzavano il deodorante su colleghi stranieri. Chi pensa si tratti di ipotesi di scuola, può fare una veloce ricerca in Rete e troverà tutto!

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Quelli ora ricordati sono solo alcuni esempi per richiamare l’attenzione su uno dei problemi più delicati che le aziende si trovano oggi ad affrontare: conciliare la necessità di tutelare la propria immagine e reputazione senza ledere la libertà di espressione e critica del lavoratore. Un non facile equilibrio tra due esigenze che hanno pari rango costituzionale, perché declinazioni di due principi fondamentali: quello della libertà di impresa (art. 41 Cost.) e della libertà di espressione (art. 21 Cost.).

Se è vero che, grazie alle nuove tecnologie, oggi possiamo sapere in tempo reale quello che accade dall’altra parte del mondo, è purtroppo vero anche il contrario: chiunque, ovunque, può sapere subito cosa accade nelle nostre aziende. E così, i social network possono trasformarsi da canale di visibilità e opportunità di business, in veicolo di “bad reputation”. Oppure il dipendente, da collaboratore soggetto a un obbligo di diligenza e fedeltà, trasformarsi nel peggior ambasciatore dell’azienda.

Ecco perché, gli esperti oggi usano l’esempio della “casa di vetro”: le aziende non hanno più le pareti blindate. Tweet, post, video e foto possono travalicare il perimetro fisico dell’azienda. Ma questa casa di cristallo è un’opportunità o un rischio? Attualmente, parrebbe di primaria importanza limitare i rischi e per farlo è opportuno adottare delle policy. In particolare – anche alla luce del nuovo art. 4 St. Lav. – queste policy dovranno regolamentare l’uso degli strumenti di lavoro (pc, tablet, smartphone, etc.), individuando sia le procedure da seguire in caso di incidenti di sicurezza, sia la tipologia dei controlli che il datore potrà effettuare, nel rispetto della riservatezza dei dati personali. Così, anziché ricorrere ad anacronistici divieti, con un’informativa chiara, il dipendente avrà consapevolezza del confine tra condotte lecite e illecite.

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Altrettanto importante, l’adozione di una “social media policy” ove le aziende indicheranno ai lavoratori alcune regole sull’uso professionale dei social, prevedendo, per esempio, il divieto di condividere contenuti protetti da copyright aziendale oppure quello di pubblicare contenuti che violano l’immagine, privacy, etica o reputazione non solo dell’azienda ma anche dei colleghi. E ancora, le policy potranno fare divieto di registrare profili, utilizzando nomi o marchi dell’azienda (ove non autorizzati), il divieto di taggare i profili dell’azienda in contenuti personali e, infine, quello di utilizzare le email aziendali per aprire account personali. Infine, nelle policy si potrà consigliare ai dipendenti di non pubblicare contenuti personali sconvenienti o volgari, e ricordare che un semplice “like” rappresenta la condivisione di contenuti potenzialmente dannosi per l’immagine aziendale (oltre che per quella personale). Così facendo, si potrà non solo limitare il rischio di danni reputazionali per l’azienda, ma anche scongiurare il rischio di licenziamenti (per giusta causa) per offese o comportamenti scorretti tenuti sui social network verso i quali la giurisprudenza ha un approccio rigoroso e poco tollerante.


Andrea Savoia partner e Marilena Cartabia senior associate – UNIOLEX Stucchi & Partners – Avvocati – www.uniolex.com