Quanto vale l’anonimato sul web?

Da una parte le piattaforme anonime, dall’altro gli organi di controllo. Ecco perché non sempre la libertà è sinonimo di sicurezza

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La scorsa settimana era trapelata la notizia che il Dipartimento di Giustizia americano aveva ottenuto, segretamente, alcune registrazioni delle telefonate fatte dalla Associated Press nel tentativo di scoprire chi aveva violato il suo account Twitter. Come risposta, il quotidiano New Yorker si era prodigato a lanciare una piattaforma per ricevere informazioni e dati sensibili conservando l’anonimato degli utenti. 

Qualcuno parla ma non sappiamo chi è

Il servizio, chiamato Strongbox, si basa su un progetto sviluppato da Kevin Poulsen, hacker e giornalista del New Yorker da un’idea di Aaron Swartz, l’attivsta morto suicida a gennaio dopo essere stato perseguitato dal Dipartimento di Giustizia per le sue attività digitali. Coinvolgendo Tor, una rete progettata per conservare l’anonimato mentre si naviga, Strongbox offre una solida protezione per le fonti in rete, per coloro cioè che sono al corrente di situazioni scottanti ma sono restìe a rivelarle per la paura di eventuali ritorsioni.

Il paradosso della verità

Secondo alcuni analisti, la piattaforma non risolve il problema delle fonti per i giornalisti. “Le informazioni fornite da una persona a livello confidenziale devono sempre essere valutate – ha detto al portale CSO Mark Jurkowitz, direttore associato per il centro Pew Research Project for Excellence in Journalism – così come quelle registrate su dispositivi rigidi”.  Soluzioni tecnologiche come Strongbox possono essere strumenti utili ma non possono sostituire i normali rapporti tra giornalista e fonte. La questione è: si preserva l’anonimato al prezzo della verità? Un dubbio lecito che fa sorgere più di un problema circa l’autenticità di ciò che circola in rete, soprattutto quando non si può verificare chi ha parlato per primo.

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