Startup Marketing

Seguo il mondo delle startup per lavoro da alcuni anni; ho visto crescere questo fenomeno negli ultimi tempi in maniera vertiginosa, ormai tutti parlano di questo nel settore IT. Ultimamente il termine si sta affrancando ed è iniziato a diventare uno slogan da utilizzare anche per ministri o candidati premier. Questo accade in Italia ma non solo, addirittura c’è chi pensa di realizzare una speciale versione di X Factor – “X Factor for Tech” dove invece che talenti musicali ci siano giovani startuppers a contendersi fama e soldi. Sono nati alcuni termini come startuppers seriali, startup market, e così via. Ultimamente anche le grandi aziende hanno fiutato l’opportunità e hanno deciso di finanziare eventi in questo mondo, la prima è stata Telecom con Working Capital, a seguire Microsoft, Enel, etc… forse si sono accorti che è scattata l’ora dello startup marketing?

TI PIACE QUESTO ARTICOLO?

Iscriviti alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato.

Vedo cose positive e cose negative e davvero non so quale possa essere la cosa giusta da fare per far crescere questo movimento, se cavalcare l’onda o magari abbassare i toni e puntare i riflettori solo su chi davvero ha avuto successo.

Ho chiesto aiuto ad alcuni amici che sono molto più esperti di me per provare a capirne qualcosa in più: Fabio Lalli, Presidente di Indigeni Digitali, Marco Marinucci e Alberto Onetti, Fondatori di Mind The Bridge e Paolo Iabichino, Executive Creative Director di OgilvyOne e OgilvyAction Italia.

A loro ho posto queste domande:

Quanto le startup sono una moda e quanto una realtà?

Fabio Lalli: Penso che il termine startup in questo momento sia abbondantemente abusato. E’ pur vero che il mercato è sempre trainato e stimolato da mode e quindi non saprei se sia un bene o un male. Quello che vedo in questo momento è una forte euforia che sta spingendo molti ragazzi a lanciarsi in un percorso imprenditoriale in alternativa alla ricerca del posto fisso. Da una parte c’è un vantaggio e riguarda lo stimolo e le nuove opportunità per una generazione che necessariamente ha bisogno di una nuova modalità di lavoro, dall’altra, il contro, è la creazione di tanti piccoli kamikaze che si sentono imprenditori solo per aver fatto due righe di codice o aver in mente la prossima Facebook.

Paolo Iabichino: Farei una distinzione: un discorso è farci prendere dall’euforia, come spesso noi provincialissimi italiani facciamo, facendoci affascinare dagli idiomi e dal fatto che la parola startup suona bene e ha a che fare con il futuro, con la tecnologia e con l’innovazione. Sono tutti temi che ci stanno a cuore, molto affascinanti e seduttivi e quindi sono d’accordo con te, è una moda e il tema può essere facilmente strumentalizzato in chiave di marketing. Improvvisamente le aziende diventano tutti dei business angels, tutte alla rincorsa dell’ultima idea etc… c’è pertanto un pericolosissimo fenomeno hype.

Leggi anche:  Made in Italy: la tutela passa attraverso la tecnologia

Tuttavia in un momento dove mancano realmente le opportunità e dove realmente manca la possibilità di confrontarsi con dei mentori e di avere delle guide in qualsiasi campo, il fatto che ci sia qualcuno che decide di fare impresa in autonomia contando solo sulla bontà della propria idea è un bellissimo segnale. Vuol dire che nonostante tutto c’è qualcuno che ha voglia di mettersi o rimettersi in gioco. Quand’è che l’acqua s’intorbidisce? Quando il messaggio che arriva è quello della fascinazione della Silicon Valley: soldi facili e applicazioni create in 24 ore durante una maratona che fa tanto showbiz. Laddove vanno in onda questo genere di meccanismi, io m’insospettisco.

Quello che non mi piace è la strumentalizzazione ai fini di marketing che viene fatta e una lettura un po’ superficiale del fenomeno. Per me una startup è anche il caso di un art director di 29 anni che si è stancato della multinazionale in cui lavora e apre una libreria a Trastevere o un caffè sui Navigli. Anche queste sono startup, anche se non hanno nulla di tecnologico, c’è qualcuno che ha avuto un’idea e ha deciso di avviare un’impresa sfidando la sorte. Per essere una startup non c’è bisogno per forza di algoritmi o piattaforme tecnologiche, in questo momento chi può e ha un’idea e la mette in circolazione è solo da ringraziare, è salutare per l’intero Sistema Paese e deve essere incoraggiato.

Mi sembra che si sia un grosso hype, ma numeri certi pochi, si parla spesso d’impatto potenziale, ma oggi?

Marco Marinucci: L’ecosistema delle startup, per quanto sia difficile misurarlo, è di certo in crescita, sia sul fronte della quantità sia della qualità, come abbiamo annunciato all’inizio del Venture Camp, limitandoci al sottoinsieme dei 7 progetti scelti come vincitori del Venture Camp 2011 (IlikeTV, Vivocha, D-Orbit, Timbuktu, StereoMood, Vinswer, NextStyler). In meno di 10 mesi: in aggregato, $6.4M ricevuti di funding, una valutazione di oltre $32M. Ovvero 824% in più di valore di mercato in meno di un anno. Per non parlare del 156% di crescita di posti di lavoro creati da queste startup. Pochi, certo, in valore assoluto. Tuttavia creano a loro volta una cultura di startupper che diventa virale e fa crescere le opportunità in progressione biometrica.

Fabio Lalli: Questo credo sia normale. L’hype è generato dall’euforia e soprattutto da un’esigenza economica. La realtà è che non esistono cambiamenti sociali ed economici che fanno uno switch da 0 a 100 senza tutto il percorso intermedio. Per arrivare ad avere numeri interessanti in termini di realtà che fanno risultato, è necessario avere numeri straordinari in termini di produzione, avvio e morte. Penso sia normale, è sempre successo così, non credo che di aziende tessili o industriali siano nate solo quelle che poi sono emerse. Per 1.000 che ne nascono, uno decolla.

Leggi anche:  Microsoft riunisce i team di Windows e Surface

Come presidente di Indigeni Digitali, quali sono i numeri reali in Italia? Quante startup? In che settori e con che fatturato?

Fabio Lalli: Beh, questa domanda è difficile. Per quanto ci stiamo proponendo come osservatorio sulle startup da qualche giorno e stiamo iniziando una serie di studi (come estensione della mappa che abbiamo già realizzato che stiamo sviluppando ulteriormente), ti dico che numeri “ufficiali” non ne ho. Quello che posso dirti è che ora, trovato per lo meno un perimetro comune di definizione di startup, si può procedere con un’analisi più puntuale. Sul discorso fatturato… è ancora più difficile.

Si moltiplicano gli eventi e le competitions relative a questi settori, non c’è un rischio X Factor o Amici dove si vendono sogni e si illudono molti ragazzi? Siamo sicuri che qualcuno non ci stia speculando?

Alberto Onetti: Il fenomeno è di certo diventato una moda e come tale si presta a generalizzazioni che possono, in alcuni casi, essere fuorvianti. Il fatto che se ne parli crediamo possa aiutare a farlo crescere e diffondere. Ovviamente diventa sempre più importante fare informazione obiettiva e non auto celebrativa. E’ quanto noi facciamo da anni per esempio con la nostra MTB Survey. Da questi dati è evidente che startupper non ci s’improvvisa, ma sono necessarie istruzione ed esperienza.

Fabio Lalli: In tutto c’è qualcuno che specula, anche tra fantomatici Angels, Investitori e Incubatori. E’ normale: se c’è una domanda, c’è qualcuno che si propone con servizi per fare business. Questo è il mercato! In merito al discorso “eventi”, ne abbiamo parlato spesso anche in rete: non esiste il troppo o il poco. Ogni evento, per quanto marchetta, può dare allo startupper un beneficio fatto di contatti, relazioni, visibilità, accelerazione economica seppur minima o anche, da non sottovalutare, consapevolezza e stimolo a confrontarsi di più. Sta allo startupper capire quando, come, dove e quanto partecipare in base al suo progetto, all’esigenza e al mercato in cui si deve inserire.

Paolo Iabichino: Ti racconto un aneddoto, qualche mese fa ho registrato un dominio Stortup.it, l’idea era di raccontare le storie delle decine, centinaia di startup che non hanno funzionato e soprattutto il perché non hanno funzionato. Raccontare i fallimenti (che inevitabilmente sono molti di più dei successi) da una prospettiva lucida, può insegnare molto. In Italia abbiamo il tabù del fallimento e ciò è proprio contrario alla filosofia delle startup ovvero provare a realizzare la tua idea e provarci in ogni caso. Può andare bene o male, ma se va male non devi essere messo alla gogna e invece in Italia succede questo. Il format dei talent show serve, però, forse a sdrammatizzare; spettacolarizzando, infatti, mitigo l’effetto fallimento addolcendolo; perché tutto sommato non abbiamo bisogno più di un business plan ma solo di 3 minuti di elevator pitch su un palcoscenico.

Leggi anche:  Olidata vince commessa 9 mln per nuovo progetto co-working di Poste Italiane

Il mondo del lavoro sta cambiando anche a causa della crisi perdurante. La soluzione è l’auto imprenditorialità? Se sì, come si cambia la storia e la cultura di un Paese come l’Italia dove il lavoro e’ stato sempre sinonimo di posto fisso?

Alberto Onetti: Il posto fisso fa parte di un mondo che non esiste più. Bisogna educare i giovani a essere imprenditori di se stessi. Il che non significa che tutti debbano fare partire una startup, ma che debbano cogliere le opportunità che sono offerte loro dal mondo del lavoro con uno spirito imprenditoriale… Il lavoro viene sempre più di rado offerto, bisogna trovarselo e convincere il potenziale datore di lavoro del valore che si può produrre.

Fabio Lalli: Questa euforia sta cambiando la mentalità e l’approccio e sta portando un cambiamento importante nella cultura del lavoro. Questo cambiamento è ancora incompleto e privo di molte strutture sia culturali sia organizzative. Culturali, ossia di formazione e cultura imprenditoriale, mentre per organizzative intendo lo sviluppo di tutti quegli stakeholder necessari a un ecosistema imprenditoriale (VC, incubatori, università, reti di imprese, …) come scritto anche in The Rain Forest.

Paolo Iabichino: Bisogna riflettere sul valore delle parole, nel senso che quando un ministro dice che forse siamo un po’ choosy, lasciando correre la superficialità dell’affermazione, forse è una verità con cui dobbiamo fare i conti, ossia cambiare drammaticamente la prospettiva rispetto a un lavoro che siamo stati abituati a concepire in questo Paese in un modo che purtroppo è diventato anacronistico. Come cambiare? Secondo me, poiché è un fattore endogeno culturale che ci appartiene, dobbiamo educare le nuove generazioni: questo è un discorso che deve entrare nelle scuole, nelle università, nelle accademie. Dobbiamo aiutare chi deve entrare nel mondo del lavoro a orientare le proprie professionalità in una logica più imprenditoriale che aziendalista, meno protettiva. Dovremmo cominciare già nelle scuole un lavoro d’inserimento o di “startup” con workshop progettuali in cui le persone si cimentano con quello che sanno fare e prendono le misure delle loro capacità di lavoro in autonomia, non necessariamente a livello imprenditoriale. E anche addestrare al turnover. I nostri ragazzi quando entrano a scuola si siedono in un banco e rimangono lì fino all’ultimo giorno di scuola. Le scuole devono diventare delle palestre di cambiamento. La laurea non è più una condizione di privilegio, non dà più nessuna garanzia, bisogna ripensare il nostro modo di studiare e formarci.